Intervista a Michele Amoruso, fotoreporter reduce da un viaggio nel campo profughi al confine greco-macedone

Di Angelo Cariello

Foto: Valentina Gaudiosi

Seicentotredici chilometri e duecentoventi metri: è la distanza esatta che separa lo scorrere placido della mia vita occidentale dall’inferno di fango e stenti in cui affonda l’esistenza di chi fugge dall’oriente per scampare alla guerra, alle bombe, alla morte. Seicentotredici chilometri e duecentoventi metri: è la lunghezza del segmento immaginario – l’ho tracciato con Google Maps – che parte da casa mia e arriva al minuscolo villaggio greco di Idomeni, una frazione del comune di Paiona al confine con la Macedonia.

Idomeni conta a stento qualche centinaio di abitanti, ma, da qualche mese a questa parte, oltre ai residenti, sostano e vivono qui, accampati nelle tende o in rifugi alla buona, migliaia e migliaia di uomini e donne, migliaia e migliaia di vecchi, migliaia e migliaia di ragazzini e bambini.
Chi li ha contati afferma che questo esercito di dannati sia composto da più di dodicimila unità. Sono profughi siriani, afgani, iracheni, gente disperata in cerca di salvezza. Una ricerca che segue un percorso ben preciso, delineato dalla cosiddetta “rotta balcanica”, una lunghissima via crucis che i migranti fanno a piedi, attraversando Grecia, Macedonia, Croazia, Slovenia e Ungheria per arrivare finalmente alla terra promessa dell’Europa settentrionale. Una terra che molti di loro, però, non vedranno né toccheranno mai: sulla scia di quanto già fatto dall’Ungheria, la Macedonia, pur non essendo affatto la destinazione dei migranti, ha deciso di opporsi al loro passaggio, erigendo, lungo il proprio confine, una barriera di filo spinato presidiata costantemente dai militari.

E così, a Idomeni, per l’esercito di dannati il sogno di salvezza si è rovesciato nell’incubo di una trappola letale: i migranti non possono più proseguire il loro percorso lungo la rotta balcanica, tantomeno si sognano di tornare indietro per consegnarsi deliberatamente al male da cui scappano. È un vicolo cieco in cui gli uomini smettono di essere umani e diventano topi costretti a vivere ammassati in una gabbia che è un fazzoletto di terra di poche centinaia di metri quadri. Niente acqua, niente elettricità, niente servizi igienici. Solo la pioggia che impasta il fango in cui affondano le tende, il vento che si infila dappertutto e fa ammalare i bambini e il freddo gelido che addenta le ossa. A Idomeni, non essendoci più legna da ardere, i padri bruciano i propri indumenti per provare a far scaldare i figli.

Tutto questo succede a seicentotredici chilometri e duecentoventi metri da casa mia. Ossia: a un palmo dal mio naso. Per intenderci, Milano è molto più lontana, piazza del Duomo dista esattamente centotredici chilometri in più di Idomeni. Eppure, la spaventosa tragedia dei rifugiati al confine tra Grecia e Macedonia resta comunque qualcosa di assolutamente distante da noi, dai nostri pensieri, dal nostro mondo. La storia di questa povera gente è una storia che non ci appartiene, una questione che non ci riguarda. Anzi, a dirla tutta, questa faccenda dei profughi rappresenta una grossa seccatura (morale, politica, economica) di cui faremmo volentieri a meno, un racconto che eviteremmo di ascoltare, un calvario di cui non vorremmo conoscere nemmeno l’esistenza. Insomma, destineremmo l’inferno di Idomeni al più completo oblio, se non fosse per chi – come Michele Amoruso – si ostina ad affrontare quell’inferno per raccontarlo e inchiodarci all’obbligo di prenderne consapevolezza.

Michele Amoruso è un talentuosissimo fotoreporter, ha trent’anni e vive a Postiglione, un paesino arroccato sui Monti Alburni. Dalla passione di suo padre, fotoamatore, Michele ha ereditato fin da piccolissimo la voglia di inquadrare il mondo attraverso il mirino di una fotocamera. Dalla generosità di Don Martino, parroco di Postiglione nonché ex assistente fotografo, Michele ha ricevuto in dono la sua prima reflex. Tutto il resto se l’è sudato da solo, con lo studio e i sacrifici. Oggi è un professionista affermato, lavora per agenzie fotografiche internazionali e pubblica le sue foto sulle testate giornalistiche più autorevoli e importanti. Al talento Michele aggiunge un approccio antropologico, una sete di storie e documenti che è l’esatto contrario di quella bulimica fame di sensazionalismo che corrode e condanna tanta parte del giornalismo. Su questo, Michele Amoruso ha le idee ben chiare: «Il reporter deve essere impegnato. Ha una missione precisa da portare a termine: produrre documenti che raccontino la storia.»

«È questo il motivo per cui sei partito per Idomeni?»

«Un reporter sa che determinate situazioni devono essere raccontate. Sono convinto che quest’epoca sarà ricordata come l’epoca dei rifugiati. La nostra storia si sta scrivendo tra Lampedusa e la rotta balcanica.»

«Una pagina di storia molto triste, quella che hai deciso di raccontare.»

«L’anno scorso ho seguito gli sbarchi dei migranti nel porto di Salerno e lì probabilmente si è stabilita la connessione emotiva che mi ha spinto a partire, a novembre, per Bapska, al confine tra Serbia e Croazia. Volevo capirne di più e, per farlo, dovevo immergermi a pieno nella problematica. Sono rimasto lì una decina di giorni, i contorni della tragedia erano ben visibili anche agli occhi meno esperti. Bapska è una zona di passaggio, mi sono ritrovato ad assistere alla traversata di intere famiglie, c’erano anziani e bambini stremati dal viaggio. Mi sono reso conto che dietro quell’esodo c’era un mondo intero che doveva essere raccontato.»

«Così a febbraio sei ripartito.»

«Mi ero ripromesso di ritornare appena possibile sulla rotta balcanica. Questa volta, però, con un intento diverso. Non puntavo più alla mera cronaca dei fatti, non mi interessava più produrre le immagini accattivanti richieste dal mercato editoriale. Volevo che le mie foto raccontassero la vita dei rifugiati, la loro condizione, le loro emozioni. Così, mentre il Daily Mail decideva di utilizzare un drone per riprendere la distesa di tende dall’alto e quantificare il fenomeno del campo di Idomeni, io aspiravo invece a entrare delicatamente nella carne dei profughi, utilizzando la lama sottilissima dell’empatia.»

«Ci sei riuscito?»

«Sono un giornalista che scrive con le immagini. Più elementi conosco, migliore sarà il mio racconto. Ho provato a vivere con loro, sono entrato nelle loro tende, ho cercato di sfruttare ogni occasione per dialogare e confrontarmi con chi mi stava di fronte. D’altro canto non sono mai riuscito a limitarmi a premere cinicamente il pulsante della fotocamera e andare via. Ho sempre vissuto il mio lavoro a cuore aperto. Tutto quello che ho fotografato è stato filtrato e marchiato dal mio occhio, dalla mia testa, dal mio corpo.»

«Deve essere stato doloroso, allora.»

«Avevo già avuto l’esperienza di Bapska, questa volta ero più preparato perché sapevo già a cosa stavo andando incontro. Nonostante questo, i primi due giorni a Idomeni ho prodotto pochissime immagini. Ero devastato, mi sono ritrovato a vedere cose che mi spaccavano letteralmente il cuore. Ero immobilizzato. Ma sapevo che, in effetti, stare lì a commiserarmi non aveva alcun senso. Nel mio mestiere devi essere capace di ritrovare, a un certo punto, una forza interiore minima che ti dia la possibilità di scattare una fotografia e di andare avanti nel lavoro nonostante le ferite.»

«Ferite che diventano cicatrici indelebili, immagino.»

«Accumuli tutto, di anno in anno, e inizi a sentirti addosso tutte le tragedie che hai raccontato. La tua testa, la tua coscienza, ma anche la tua pelle e il tuo riposo: tutto si trasforma. Kevin Carter si è suicidato dopo aver raccontato il dramma della fame e della guerra in Africa. Vinse il premio Pulitzer fotografando un bambino denutrito accasciato con un avvoltoio che lo stava osservando. Poteva scacciare via l’avvoltoio e rinunciare alla foto. E invece l’ha scattata e quell’immagine è diventata il simbolo perfetto della tragedia umanitaria vissuta dal Sudan nel 1993.»

«E forse anche il simbolo della tragedia personale di ogni fotografo impegnato.»

«Carter era una persona estremamente sensibile, il peso della coscienza e i sensi di colpa l’hanno tradito. Lui, in compenso, non ha tradito la sua responsabilità civile nei confronti dell’umanità e ha lasciato a chi gli è sopravvissuto i documenti necessari a capire cosa stava succedendo in Africa in quel periodo. Solo grazie ai reporter, del resto, abbiamo potuto conoscere la vera natura della guerra in Vietnam. Se non ci fossero state le foto del napalm, dei villaggi distrutti e delle atrocità sui civili, forse quel conflitto sarebbe passato alla storia come una piccola schermaglia avvenuta in un bosco. Così come molti gerarchi nazisti che, a forza di alibi e documenti falsi, erano riusciti a farla franca, sono stati incastrati dalle fotografie e quindi condannati giustamente per gli orribili crimini commessi.»

«Una fotografia salverà il mondo?»

«Probabilmente può contribuire a farlo, di certo le immagini cambiano radicalmente il corso della storia. Il mondo è pieno di esodi, di regimi, di guerre e di uccisioni. Non tutte queste tragedie, purtroppo, finiscono sotto i riflettori dei media. Le poche che vengono illuminate, però, diventano realtà che non possono più essere ignorate. Prendiamo ad esempio la foto che quest’anno hanno scelto per il World Press, il più importante premio di fotogiornalismo al mondo. Ha vinto una foto tecnicamente non perfetta ed esteticamente non bellissima. Ma è una foto che racconta una storia tragica e, ahimè, fin troppo comune. C’è un uomo che cerca di passare un neonato sotto la recinzione di filo spinato che separa l’Ungheria dalla Serbia. La foto è un po’ mossa, sfocata, eppure, nella sua semplicità, ci ha permesso di capire la drammatica quotidianità di quella povera gente. Dopo quella foto, diventata il simbolo della tragedia dei profughi, il mondo non può più fare finta di niente.»

«Eppure, se possibile, rispetto ad agosto 2015, periodo a cui risale “Speranza di una nuova vita”, la foto di Warren Richardson vincitrice dell’ultima edizione del World Press Photo, la situazione dei profughi è addirittura peggiorata.»

«Il potere del reporter è di mettere a disposizione della comunità un’immagine. Non è certo un potere da niente, se è vero che il presidente turco Erdogan sta facendo di tutto per far confluire giornalisti e fotoreporter, assieme agli attivisti civili, nella categoria dei terroristi. Ma è vero pure che tutto è determinato dalla sensibilità delle persone che guardano le immagini. E certo oggi abbiamo sviluppato un livello talmente alto di assuefazione che tutto ci appare assolutamente neutro. Nemmeno la foto dell’Unicef del bambino con la pancia gonfia ormai funziona più. Tuttavia, più è distratto il mondo in cui viviamo, più è importante produrre immagini e testimonianze di quanto sta accadendo intorno a noi. A Idomeni i profughi avevano il timore di finire nel dimenticatoio mediatico e di riscoprirsi figli di nessuno.»

 

«Volevano farsi fotografare, quindi?»

«Sapevano bene che più si parla della loro situazione e più aumentano – almeno dal punto di vista teorico – le speranze di una soluzione al loro problema. Il paradosso è che la soluzione dovrebbe venire poi dall’Europa e dall’America, ossia esattamente dai grandi responsabili della distruzione totale da cui i profughi scappano.»

«Anche tu, quindi, ti sentivi in colpa come italiano?»

«Al di là dei discorsi sullo zampino americano nella creazione dell’Isis o sulla vendita di armi di cui l’Italia è assoluta protagonista, la situazione geopolitica attuale è troppo complessa e dubito esista al mondo uno stato completamente innocente o completamente colpevole. Per quanto riguarda gli italiani, poi, c’è da dire che eravamo sempre ben visti perché ci associavano ai militari italiani che, durante le cosiddette missioni di pace, riuscivano tra le altre cose anche a portare l’acqua nei villaggi e a regalare cibo e indumenti ai civili. C’è da dire, poi, che per molti dei profughi con cui ho parlato l’Italia rappresenta un autentico sogno, una terra promessa dove tutto va bene, tutti stanno bene e tutto è bello.»

«E tu? Confermavi o smentivi?»
«Non mi andava di smontare uno dei pochi sogni rimasti in piedi in una situazione simile. E poi, a dirla tutta, anche il più grande dei problemi che abbiamo in Italia impallidisce se confrontato con la situazione di Aleppo o delle altre città siriane. La gente accampata a Idomeni ha perso tutto, ha visto radere al suolo la propria casa e morire i propri cari. In una delle mie foto più tristi ho ritratto un signore che in un campo stava provando, con un ceppo, a spaccare l’asse di una finestra. La legna era finita, si faceva incetta di tutto ciò che era possibile bruciare, avevano preso quella finestra nella stazione per provare a farne legna per riscaldarsi. Dopo lo scatto, il signore si è avvicinato a me, voleva vedere la mia fotografia. Assieme a lui si sono avvicinate anche le due donne che erano nella tenda. Erano la moglie e la sorella di quel signore. Quest’ultima si è fermata a parlare con me, mi ha raccontato che suo marito era morto pochi giorni prima sotto i bombardamenti. Gli altri componenti della sua famiglia erano da qualche parte in Europa, ma aveva perso i contatti ed era ormai sicura di non poterli rivedere mai più. Piangeva, si sentiva abbandonata, senza speranze. Mi ha abbracciato. Questa cosa mi ha completamente stravolto. Ho passato il resto della giornata a vagare nel campo come uno scemo, perdendo di vista il mio lavoro, a chiedermi tante, tantissime cose.»
 

«Di sicuro ti sarai chiesto anche come è possibile una simile tragedia.»
«L’esodo di decine e decine di migliaia di persone è un fenomeno che ha cause gravissime. L’Europa, un po’ per paura, un po’ per debolezza, non è stata capace di rispondere in modo adeguato a questo fenomeno.

Stiamo parlando di un’istituzione vecchia, che agisce in modo cattedratico e si illude di poter risolvere a tavolino, attraverso documenti e atti d’ufficio, ogni tipo di problema. E quindi anche quelli di chi vive nel fango o affonda sui gommoni. Fra trenta o quarant’anni si ricorderanno di noi come degli incapaci che non hanno fatto niente per risolvere o almeno per provare a capire un dramma così grande.»

«Credo tu abbia riflettuto a lungo su questo argomento. Quale potrebbe essere la soluzione?»

«Per risolvere un problema che affligge gli uomini penso si debba partire semplicemente dagli uomini. I potenti, prima di assumere qualsiasi decisione, dovrebbero calarsi realmente in mezzo a questa gente, tra le tende, nel fango. Sono sicuro che nessuno si sognerebbe più di chiudere improvvisamente le frontiere di uno stato e a nessuno verrebbe più in mente di lasciare migliaia di persone a morire di freddo, di malattie, di fame. Inutile dire che questa è una prospettiva lontanissima dalla nostra realtà. Anzi, ancora oggi c’è chi finisce con l’associare gli attentati terroristici ai profughi e ai rifugiati. Ma se continuiamo a fare colpevolmente confusione tra i terroristi e chi scappa dai terroristi, allora vuol dire che non ci interessa minimamente risolvere per davvero questo problema.»

 

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