Cronaca

Il pentito Di Maio rivela: “Volevamo rapire Attanasio”

SALERNO. Il pentito Sabino Di Maio rivela che nel 2008 avevano pensato di rapire Giovanni Attanasio, arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di associazione mafiosa e riciclaggio.

“Volevamo rapire Attanasio”. Lo rivela il pentito Sabino Di Maio

Si chiedevano da dove arrivassero tutti quei soldi, ipotizzando che le sue fortune fossero legate alla copertura di qualche politico romano. Poi il pensiero sfumò. Vediamo il quadro: lo stesso pentito Raffaele Del Pizzo, poi nomi pesanti come Roberto Boccalupo, Ivano Festosi Francescantonio Fabbrocino. Ma anche Lucia Noschese, legata al clan Giffoni o Paolo Cesaro e Luca Sorrentino. Tra gli assunti di Attanasio anche Massimiliano Nastri, ucciso a Pontecagnano nel 2015.

Tutti nomi legati ai Pecoraro Renna, qualcuno ai De Feo. Unico comune denominatore il ruolo di Enrico Bisogni che grazie ai suoi accordi con Giovanni Attanasio ne gestiva le assunzioni per eludere l’attività investigativa dell’autorità giudiziaria. Lo stesso pentito Del Pizzo ha raccontato come fosse stato lo stesso Attanasio a farlo lavorare in affidamento presso la fabbrica di un amico e così poteva continuare a trafficare in droga.

E il ruolo di coprire i malavitosi lo conferma anche Antonio D’Agostino soddisfatto per l’appoggio di Attanasio ai ragazzi di Salerno. Attanasio, definito un camorrista col vestito buono, era a disposizione del clan e dei suoi affiliati fornendo loro la possibilità di lavorare in modo che avessero libertà di movimento sul territorio.

Tanto è vero che lo stesso Enrico Bisogni lavorava presso aziende riconducibili all’imprenditore di Pontecagnano. Le indagini hanno rivelato che Bisogni aveva un’autonomia decisionale soprattutto nel reclutamento e impiego del personale nelle varie società di Attanasio.

Ed è grazie a questa libertà di agire che Bisogni organizza la distribuzione di attestati falsi di impiego lavorativo. Con parte dei soldi che riciclava grazie all’appoggio del clan, fondamentale nell’assegnazione degli appalti, si lavorava per investirle in altre attività, come l’acquisto delle quote del Maxisconto di Battipaglia. Avvalendosi dei prestanome come Sergio, Matteo e Antonio La Rocca e rispettivi coniugi spese 100mila euro per il supermercato.

Una rete di sodali, che non mancava di mostrargli riconoscenza, gli permetteva di reimpiegare i soldi trattenuti
attraverso le sistematiche violazioni alle leggi tributarie. Denaro che transitava da un conto all’altro, da una società all’altra, in Italia e all’Estero, rendendo complicata anche la tracciabilità delle movimentazioni bancarie.

FONTE: Le Cronache

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