Eventi e cultura

L'Occhio di Salerno incontra gli artisti della provincia – Intervista a Domenico Monaco, contastorie della Terra

L’Occhio di Salerno incontra gli artisti della provincia. Il progetto di sensibilizzazione alla cultura parte da Trentinara, nella magnifica del Terrazza del Cilento. Abbiamo incontrato Domenico Monaco, contastorie della Terra.

– Inizio domandandoti: chi è Domenico Monaco?

Attualmente Domenico Monaco è un contastorie. Ci tengo a precisare che nessuno riesce a scrivere contastorie, nemmeno nelle locandine. Tutti dicono “cantastorie” pensando che io abbia sbagliato a scrivere. Assolutamente. Io le storie non le canto, le racconto. Anche perché la mia storia nasce dal racconto. L’altro motivo, invece, è che non so cantare (ride, ndr). Infatti mi presento come artista completo al 66-67% per citare Maccio Capatonda. Però sia chiaro: punto a diventare artista al 100%. Torniamo seri. Questa per me, ora, è una vera e propria professione. Ma il tutto nasce per gioco. Ti spiego meglio: una sera, nel mio bar, dove ero solito organizzare serate ogni venerdì, alcuni amici di Capaccio vennero a trovarmi. Al termine della serata, rimanemmo in pochi. Non so per quale motivo precisamente, forse ero ispirato o forse ero brillo, ma iniziai a raccontare accompagnando con la chitarra. Tra l’altro storie che noi conosciamo da sempre e che da quando eravamo piccoli, in piazza, nelle feste o in famiglia, ci dicevamo. Iniziai a raccontarne una decina e vidi che si divertivano. Tanto. Ovviamente per me finì in quel momento. Non avrei mai immaginato di arrivare a tanto. Inoltre, apro una piccola parentesi, il mio punto di forza è l’immagine del trentinarese nei paesi limitrofi: noi di Trentinara siamo visti come personaggi curiosi, sempre con la risposta pronta. A Capaccio siamo dei miti: succede un po’ come con i carabinieri, su di loro creano barzellette, su di noi creano vere e proprie leggende. Quando conoscono una storia divertente la attribuiscono ad un trentinarese. Tornando a noi, faccio un piccolo flashback: un anno prima dell’episodio che ti ho raccontato, mi chiama un amico invitandomi a Scigliati (frazione di Capaccio, ndr) per lo “SMAC Festival”. L’amico organizzava, sapeva di questo mio hobby da “intrattenitore” (per intenderci) ancor prima di fare il contastorie e mi chiese di fare uno skatch comico. Accettai. Mi venne la malsana idea, però, di prendere in giro il Papa. Erano i tempi dell’abdicazione di Ratzinger. Un evento talmente importante che pensai meritasse uno skatch satirico. Gli obiettivi della satira, Luttazzi ci insegna, sono il sesso, la religione, il potere, la politica e la morte. Comunque, presi una veste di mamma, tagliai un super santos e lo misi in testa, ed ero pronto per somigliare a Papa Francesco. Inventai che la Merkel avesse mandato un messaggio al vecchio Papa. Sono laureato in Lingue e parlo bene il tedesco. Lessi una cosa lunghissima in tedesco, per poi tradurla con due tre parole. Un po’ alla Giobbe Covatta per capirci. Ma il bello arriva quando Papa Francesco telefona Ratzinger per farsi suggerire cosa dire nell’Angelus della domenica. Avevo una spalla che mi aiutò parlando a telefono con me a distanza ed al momento di chiudere, rievocai la memore battuta di Neri Marcorè e feci: «attacca tu» e lui «no, attacca tu» ed io «al mio 3 dai. 1…2…3…». Allora: platea di ultraottantenni, chiesa aperta. Non rideva nessuno. Io riuscii a scorgere due ragazze alle quali piacque la cosa. Guardavo sempre loro (ride, ndr). Molti tra gli organizzatori mi fecero capire che alcune cose non si possono fare qui. Con una chiesa aperta, prendere in giro il Papa. Per me fu una grande lezione. Capii che questo Paese non è pronto alla satira, e ancora oggi me ne rendo conto quando vedo l’indignazione per la vignetta di Charlie Hebdo che, a mio avviso, non è stata capita. L’anno dopo, sempre a Scigliati, fanno questa “Corrida”. Decisi di partecipare con i miei racconti trentinaresi. Vinsi il primo premio. Ebbi un successo non indifferente. Credo che quello sia stato il trampolino di lancio. Iniziarono a chiamarmi per compleanni, battesimi, matrimoni, sagre, feste, eventi ecc.. La voce iniziò ad espandersi. Ho accumulato esperienza. Conoscendo pubblici diversi ho capito cosa puoi fare in determinati contesti. Ho capito cosa le gente vuole sentire. Lo spettacolo non è sempre lo stesso. Molto lascia all’improvvisazione. Con un amico eravamo a Capaccio. Preparammo quattro skatch, poi finimmo per fare uno spettacolo di circa 3 ore tutto improvvisato. Dopo la laurea in Lingue volevo insegnare. Vidi molte cose storte e capii che il mondo della scuola non faceva per me. L’inclinazione naturale all’insegnamento, però, la inserisco in questa mia attività. Senza presunzione credo che oltre a raccontare, io insegno. Lascio sempre qualcosa al pubblico. Anche perché quando posso parlo di storia, di cultura, di politica e di lingua. Soprattutto sulla lingua. Studio bene i dialetti degli altri posti, la storia, i costumi. E cerco di spiegare, scherzando, tutte le dinamiche che portano ad utilizzare quei linguaggi. Molto credono che io dica barzellette oppure faccia comicità spicciola. Non è così. Ricevo ogni volta complimenti per l’intelligenza dei miei spettacoli. Cerco di non essere mai banale. Quello è il Bagaglino. È Martufello.

– In merito all’episodio del Papa, colgo l’occasione per chiederti: ti senti capito in un contesto come il Meridione d’Italia? E, in qualche modo, ti senti limitato?

Guarda, i limiti sono una cosa che ti imponi tu in determinati contesti. Se faccio uno spettacolo ad un matrimonio hai già tempo limitato. Tra gli invitati spesso trovi persone anziane e allora non puoi superare alcuni limiti. Invece, quando fai una serata in un bar con molti ragazzi, conosci che tipo di persone sono, magari hanno un orientamento politico più sinistroide, perché diciamoci la verità: la comicità, la satira sono sempre stata di sinistra per quanto possa ancora valere questo termine, allora puoi fare una battuta sul sesso, sulla religione, puoi usare un termine più spinto. E funziona. Inoltre ritengo che ci sia un limite tra l’essere spinto e l’essere volgare. Certe volte se non usi alcuni termini perde d’effetto. In questo periodo sto ascoltando gli ‘Squallor’. Per me sono idoli. Hanno saputo trattare dei temi sociologici in maniera poetica. Se li ascolti con leggerezza, con superficialità la sensazione comune sarà di una cosa volgare e basta. Invece no. Se rifletti, capisci. Credo che nemmeno ora il pubblico sarebbe pronto agli Squallor. Il popolino, il pubblico di massa, vuole sentire Gigi D’Alessio, vuole comicità da Zelig e Colorado. La gente si scandalizza per una bestemmia, che in questi posti è intesa come una questione linguistica più che come una mancanza di rispetto verso la religione, si scandalizza per delle piccolezze e poi guardano Canale 5 a giornate intere. Quella è un’offesa all’intelligenza e al decoro.

– Quanto ha inciso sulla tua formazione professionale essere legato a questa terra, alla cultura, alle tue origini?

Ha inciso tantissimo. Io avevo iniziato a studiare lingue perché volevo andare via da qui. Sono stato in Germania. Un anno in Erasmus, ed un mese a fare l’artista di strada. Poi alcune vicende personali mi hanno riportato qui. Ma soprattutto mi sono reso conto che lì, tu puoi viverci bene, puoi trovare un buon lavoro, magari guadagni anche bene, però ti mancano quelle cose immateriali che valgono tanto. Io, attualmente, ho fatto un orto. Ho piantato alberi. Ho fatto il vino. Ho il mio giardinetto. Queste sono cose che non hanno prezzo. Andare in un giorno libero in montagna, perché hai tutto a portata di mano, stare qui sulla terrazza del Cilento e trascorrere ore ed ore, magari anche senza fare nulla, è qualcosa che ha un valore. I miei studi mi hanno stimolato molto ad interessarmi alle questioni socio-culturali e linguistiche della nostra terra. Ho intenzione di fare un libro sui costumi, sulla storia e sulla lingua. Non voglio partire dai Romani e dai Greci, ma dal 1800 sino ad oggi se guardi con ampio respiro la storia, la cultura, gli sconvolgimenti politici, il mutare del linguaggio e le metti in uno spettacolo comico, diventa qualcosa di estremamente efficace. Le persone dicono: «mi sono divertito, ma ho anche imparato qualcosa». Negli anni ho avuto modo di carpire una differenza fondamentale tra il dialetto della costa e il dialetto del cilento. Nei paesi della costa cade la vocale finale, nel Cilento no. “Vac a cas” diventa “Vao a casa”. Perché? Perché da noi non ci sono state tante influenze esterne. Pensate a Napoli: duecento anni di dominazione spagnola. Resta lo spagnolo nella lingua e nella cultura napoletana. Da noi qua sopra, ma chi ci voleva venire? (ride, ndr). Noi facciamo sentire tutte le vocali, in particolare la “I”. Perché a noi la “I” piace. Se vai a Roccadaspide pure piace, ma mangiarsela. Loro non pronunciano mai la “I”. Tant’è vero che due mesi fa in uno spettacolo mi improvvisai candidato a sindaco di Roccadaspide e dissi: «vi prometto che se verrò eletto dopo quarant’anni porterò la “I” a Roccadaspide». Studiando il dialetto di Castel San Lorenzo ho avuto modo di notare forti richiami al portoghese. Sono cose interessanti e noto che al pubblico piacciono.

– Politica. Credi che le amministrazioni locali attuino le giuste politiche locali in campo culturale? Potrebbero fare qualcosa per valorizzare anche gli artisti?

Penso che la situazione sia ancora un po’ arretrata. Perché in Italia, e soprattutto al Sud, la cultura è ridotta abbastanza male nonostante potenzialmente il nostro patrimonio ci permetterebbe di primeggiare nel mondo. Non viene dato il giusto peso alla cultura. Quanti teatri stanno chiudendo? Quanti italiani non hanno mai visto un museo o non conoscono le ricchezze artistiche di questo Paese? Quante università telematiche e scuole private stanno prendendo il sopravvento su quelle pubbliche? Il ministro dell’ultimo governo Berlusconi disse «con la cultura non si mangia». Falso: con la cultura si mangia eccome. Per quanto riguarda la politica locale non sono così negativo: probabilmente grazie al Parco Nazionale del Cilento il sostegno alla cultura non manca. Ma allo stesso tempo si vedono cose strane: mega finanziamenti per alcune feste e zero per feste magari più piccole, ma lo stesso importanti. Io faccio l’esempio della Festa del Pane che vivo in prima persona ormai da anni. È diventata una dei “must” nel Cilento insieme a Giungano, Roccadaspide, Cannalonga o Mojoca e la festa di Stio. Bisogna farsi in quattro per trovare qualche sponsor privato. Ma finanziamenti pubblici non se ne vedono, a meno che non sei allacciato col politico di turno che ti fa il favore, ma poi diventi “ricattabile”. Ci sono eventi che ricevono dai 150mila ai 250mila euro, e feste che non ricevono nemmeno un euro. Chi comanda decide. Se sei amico “di” ti va bene, altrimenti ti va male. Fortunatamente in ogni posto c’è chi ha a cuore queste tradizioni e trova il modo di fare in modo che si svolga. Ma diciamo che è un sistema iniquo.

– Che progetti hai per il futuro?

Continuerò a fare questo almeno per un altro anno, magari pensando ad un altro spettacolo. Anche perché la sto vivendo ancora come una gavetta. Molti mi dicono «ma perché non provi qualcosa in televisione»? Non lo escludo. Ma si dovrebbe trovare la formula giusta perché sei limitato innanzitutto dal punto di vista territoriale, e poi sei limitato anche dalla Tv in generale. Non sarei libero come quando faccio i miei spettacoli, ma è una porta che lascio aperta. Attualmente ancora non mi interessa tantissimo. A fine ottobre inizierò un programma su Stile Tv, di circa mezz’oretta. Sarà una sorta di Tg satirico dove racconterò in maniera ironica ciò che accade in zona. Ovviamente questa è una cosa diversa, ma sono pronto a rischiare: perché con le barzellette e con i racconti non ti fai nessun nemico; con la satira qualche nemico te lo fai. Studierò bene i dettagli in modo da non diffamare. E poi c’è il diritto di satira che ti para il culo (lo posso dire? ride, ndr) spesso e volentieri. (…) Quando andai in Germania, a differenza di tanti altri che rimangono, io sentii l’esigenza di tornare: dovevo portare quell’esperienza nella mia terra. Fu un periodo della mia vita bellissimo, perché ritrovai la mia ex fidanzata che all’epoca mi invitava a lasciar perdere questa strada. Ma dopo aver visto che riuscivo ad intrattenere il pubblico per oltre due ore dovette ricredersi. Per me è stata una rivincita, è stata la dimostrazione che bisogna sempre perseguire qualcosa in cui si crede. (…) Quando tornai a Trentinara aveva un altro spirito: durante le serate mi vestivo da Dio Bacco…una sera mi vestii da monaco, spaccai 4 birre che avevo nel bar della mia famiglia ed iniziai a benedire in latino i passanti; cantavo, suonavo e prendevo in giro chi capitava. Uno mi fece: «Sì, però cerchiamo di non infangare le cose in cui crediamo» risposi in con molta allegria: «E facitevi na ca**o de risata». Ovviamente “nemo propheta in patria”. La gente del paese iniziò a chiedere a mia madre «ma vostro figlio che ha, è uscito pazzo?». L’ultima mattina della Festa del Pane, trovai mamma disperata che mi diceva «ma cosa ti è successo?». Io non ero mai stato meglio prima d’ora. Ero brillantissimo. Venivo dall’Europa. Quella bella. Quella vera. Col tempo ho riscosso molto più successo, e molta gente si è ricreduta. Questa è stata la mia grande vittoria. Infine il mio obiettivo a breve termine è espandere un po’ i confini. L’altra sera sono stato a Montevergine, in provincia di Avellino. Si sono divertiti anche loro. Spero di riuscire ad ampliare ancora di più gli orizzonti. Poi vorrei mettere anche qualcosa su disco. Perché non è vero che non canto, qualcosina la arrangio. Infine, mi piace anche pensare una cosa: io quando andavo a scuola, quello che mi ha rovinato la vita è stato Foscolo. “Dopo la morte non c’è niente” ed io dissi «caspita, ha saputo trovare le parole per dire ciò che ho sempre pensato». L’unico modo per eternarsi, diceva Foscolo, è lasciare qualcosa. Che sia scritto, o parlata. Ma qualcosa che rimanga in eterno.

– Non c’è un titolo o un riconoscimento ufficiale che lo attesti, ma quand’è che uno può definirsi artista?

Artista è una cosa che ti dicono gli altri. A me non interessa particolarmente. Io per evitare discussioni, preferisco definirmi evangelista piuttosto che artista. Nel senso che molto di ciò che faccio non l’ho inventato io, sono delle cose dette dagli altri che io ho riscritto, che ho teatralizzato. Sono evangelista perché porto agli altri un messaggio. Una buona novella della cilentanità. Quando uno può definirsi tale? Quando hai delle doti naturali, una genialità innata e soprattutto una cosa fondamentale: lo studio. Ma non lo studio inteso per forza in maniera accademica. Anche se non sono tra quelli che in coro dicono «l’università non serve a nulla». Assolutamente no, l’università è fondamentale. Infine, sto lavorando su molti aspetti: affino gli spettacoli a seconda delle esperienze, dei contesti in cui mi esibisco e della gente che incontro. Spero di riuscire a fare qualcosa di buono per molto tempo, far divertire e (perchè no) far riflettere.

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