L'intervista

Se questa è una società civile – Intervista ad Andrea D’Ambrosio, regista autore di “Due euro l’ora” – Occhio di Salerno e provincia

Di Angelo Cariello – Foto di Valentina Gaudiosi

A contarli, dall’inizio dell’anno a oggi, sono duecentodue in tutto. No, non sono i tiri in porta della prima in classifica e nemmeno i minuti di applausi tributati all’ultima delle fugaci stelle sfornate da un talent. Non si tratta del numero di promesse non mantenute dal più onesto dei nostri governanti e nemmeno del numero di assenze collezionate dal meno tollerante dei politici al Parlamento europeo nei centotrentaquattro giorni che sono già trascorsi dall’inizio del 2016. Niente di tutto questo.

Duecentodue è una cifra che racconta qualcosa di molto più drammatico. Un numero bagnato di sudore, sporco di polvere, macchiato di sangue. Un impasto letale in cui si amalgamano responsabilità tradite e ingiustificabili omertà, riconducibili, le une e le altre, prima di tutto allo stato italiano, un mostro bifronte che, dietro la frenetica corsa agli slogan e sotto lo sventolio delle bandierine dei diritti – elementari e inviolabili – che apparentemente riconosce a ogni povero diavolo che vive in questa nazione, nasconde a fatica la propria complicità a una strage senza pari, quella dei morti sul lavoro.

Duecentodue morti sul lavoro, morti di lavoro, solo nel 2016: ecco svelato il senso di questa cifra. Un numero spaventoso che probabilmente crescerebbe a dismisura se riuscisse a comprendere tutte le “morti bianche” avvenute sul luogo di un lavoro “nero”, quello senza contratti e garanzie, decessi che imprenditori spietati e vili abilmente sottraggono a questo macabro conteggio.

Una guerra in piena regola che fa più vittime della cosiddetta criminalità organizzata – ammesso che esista qualcosa di più criminalmente organizzato del nostro stesso sistema statale – e che, negli anni, conserva pressoché intatto il suo feroce incedere.

Un fenomeno inarrestabile, quindi? Una dinamica ineluttabile? Una carneficina a cui è impossibile porre rimedio? Stento a crederci. Nell’era della digitalizzazione globale in cui è possibile risalire finanche all’albero da cui è stata raccolta la mela che mangio ogni giorno nell’illusione di scacciare malattie e medici, per quale assurda ragione dovremmo concepire di non poter controllare in modo approfondito e serio le condizioni in cui quella stessa mela è stata colta? L’ha colta un bracciante agricolo regolarmente assunto? Sono state rispettate tutte le prescrizioni riguardanti la sua sicurezza? La scala su cui si è inerpicato per arrivare in cima all’albero è conforme a quanto previsto dalla normativa in vigore? Gli orari a cui il lavoratore si sottopone ogni giorno mettono a repentaglio la sua incolumità? Quesiti elementari che pescano dal bacino morale del buon senso, domande semplici che noi stessi dovremmo porci ogni qualvolta acquistiamo e consumiamo un prodotto, al fine di orientare le nostre scelte verso un consumo più consapevole, più lucido, più equo.

Certo, potrebbe rivelarsi solo un tentativo – sterile e puerile – di smarcarci moralmente dalla condizione di correità, uno stratagemma per sistemare la nostra coscienza più che il problema in sé. Tuttavia, esistono altre strategie per provare a compensare la connivente cecità di chi colposamente si sottrae al proprio ruolo di guardiano delle regole del gioco del mondo del lavoro? In quale altro modo potremmo tentare di porre rimedio allo scatafascio completo della sfera di diritti e tutele dei lavoratori a cui ormai spudoratamente puntano, a suon di riforme e di abolizioni, le ultime infauste legislature nostrane?

Insomma, chi ha fabbricato gli infissi che ho appena comprato? Come è stata realizzata la conserva con cui condisco il mio piatto di pasta? Dove hanno confezionato il materasso su cui dormo ogni notte?

Chissà, magari potrebbe capitarmi di scoprire che l’hanno prodotto in un’azienda modello che coccola e protegge diligentemente i propri dipendenti e il mio sonno sarà allora dolce e sereno come lo stato d’animo di chi l’ha realizzato.

Oppure potrei scoprire che il mio materasso è nato in un garage seminterrato posto al di sotto di una scuola elementare, un’azienduccia abusiva dove lavoratrici pagate in nero e sfruttate fino allo sfinimento si affaticano senza sosta, senza misure di sicurezza, senza vie di fuga, incastrate tra le montagne di materassi impilati l’uno sull’altro, una trappola perversa in cui non c’è traccia alcuna dei sacrosanti diritti che spettano – in modo inalienabile – a ogni persona che offre la propria forza lavoro in cambio di un salario. Che è esattamente ciò che accadeva alla “Bimaltex srl”, un materassificio clandestino di Montesano sulla Marcellana che, seppur intestato a un evasore totale, ha sfornato e venduto materassi fino al 5 luglio del 2006. Poi, dopo più di sei anni di onorata attività, una ciabatta elettrica è andata in corto circuito, lo scantinato ha preso fuoco ed è saltato il banco. Anche perché in quell’incendio persero la vita due operaie, una donna di quarantanove anni, Annamaria Mercadante, e una ragazzina di nome Giovanna Curcio, che di anni ne contava a malapena sedici e che, per la sua scarsa esperienza, percepiva come paga solo un euro l’ora, uno in meno delle sue colleghe più navigate e svelte. Annamaria e Giovanna, molto legate tra loro nonostante la differenza di età, morirono nel giro di pochi minuti, asfissiate dalle esalazioni tossiche generate dai materassi “ignifughi” dilaniati dalle fiamme. Una storia raccapricciante, un salto nel vuoto, una discesa negli inferi della schiavitù, dello sfruttamento minorile, del lavoro appestato della più crudele delle sfumature del nero.

Una vicenda, quella del materassificio clandestino di Montesano sulla Marcellana, che ha colpito e ispirato Andrea D’Ambrosio, regista salernitano che ha posto nell’impegno civile la ragion d’essere della propria produzione cinematografica. Dopo “Biùtiful cauntri”, il pluripremiato documentario con cui nel 2008 aprì gli occhi a una nazione intera sul disastro dei rifiuti in Campania, Andrea D’Ambrosio torna nelle sale cinematografiche con un film – questa volta di finzione – intitolato “Due euro l’ora”, una pellicola che assorbe e rielabora narrativamente l’assurda sciagura di Montesano sulla Marcellana. Nel cast del film, scritto e sceneggiato da Andrea D’Ambrosio e Donata Carelli e prodotto da Enzo Porcelli per l’Achab Film (con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e in collaborazione con Rai Cinema), spicca la figura di un artista immenso come Peppe Servillo, storica voce degli Avion Travel. «Una persona straordinaria, di un’umiltà unica. Peppe non è solo un grande attore e un grande musicista, è anche una grande persona», mi racconta Andrea D’Ambrosio.

Ci siamo dati appuntamento a Pontecagnano, la città in cui il regista vive assieme a sua moglie, Carla, e a sua figlia, Francesca, una bimba di tre mesi che ha felicemente rivoluzionato ritmi e orari di Andrea.

Foto di Valentina Gaudiosi

«Andrea, perché hai deciso di raccontare questa storia?»

«Mi capitò per caso di leggere la notizia di questa tragedia avvenuta a pochi passi da qui, in un comune del salernitano. Di lì a poco cominciarono a parlarne tutti i media. Anche Giorgio Napolitano si occupò di questo drammatico incidente. Al di là del clamore, la vicenda del materassificio di Montesano sulla Marcellana mi colpì profondamente. Faticavo a comprendere come fosse possibile, in un paese che si definisce civile, che una ragazzina minorenne avesse perso la vita mentre lavorava in uno scantinato abusivo. È una cosa che succede nel terzo mondo. Così decisi di seguire il processo e di mettermi in contatto con le famiglie delle due povere donne morte nell’incendio. Sentivo il bisogno di raccontare questa storia. Inizialmente, pensavo a un documentario. Poi, però, mi sono reso conto che il suo carattere schematico avrebbe limitato la portata di ciò che puntavo a esprimere. Creando una storia nuova, dando vita a nuovi personaggi, avrei potuto imbastire una narrazione dal valore universale più forte di qualsiasi documento.»

«Che film è venuto fuori?»

«Di sicuro, è il film a cui più sono legato, l’opera che amo di più. Nonostante le tante difficoltà incontrate – difficoltà a cui ormai non sfugge nessun film italiano –, “Due euro l’ora” è esattamente il film che volevo girare. Non credo sia un film di denuncia. È un film sul lavoro, questo è certo. Ma è anche un film sull’amore, sulle illusioni, sul sud che spera eternamente di migliorare e che invece resta eternamente uguale a se stesso. Ho provato a dipingere un quadro che, attraverso il micro mondo di personaggi e vicende che si intrecciano attorno allo scantinato abusivo, rappresentasse le dinamiche che appartengono a ogni periferia, a ogni terra di provincia, a ogni sud del mondo. Anche perché sono convinto che il sud non sia un luogo geografico circoscritto, ma un modo di essere e di fare le cose. Mi interessava rappresentare ciò che siamo diventati, ciò che per noi ha assunto il carattere di normalità: due euro l’ora è ormai la paga di tutti, è il salario che normalmente percepisce ognuno di noi.»

«A dieci anni dalla tragedia di Montesano sulla Marcellana, siamo dunque ancora malati di lavoro nero?»

«Ho girato tanto, di scantinati come quello di Montesano ne ho visti fin troppi. Anche se mi fa male ammetterlo, mi sono reso conto che troppo spesso il lavoro nero è l’unica forma di sopravvivenza. Ci sono situazioni in cui, essendo ormai così labile il confine tra la legalità e l’illegalità, viene a mancare la possibilità di scegliere: insomma, o accetti di lavorare in nero, o ti rassegni a morire di fame. È qualcosa di assurdo, eppure è il punto a cui siamo arrivati. E non è una piaga che affligge solamente la Calabria, la Basilicata, la Campania, anche al nord ormai funziona così. Come pure devo ammettere che a soffrire di questo male non sono solo gli operai. Nemmeno gli imprenditori ce la fanno più, per questo tanti di loro si impiccano.»

«Per quel che ho capito, però, Biagio Maceri, l’imprenditore che aveva messo su quella fabbrica dell’orrore a Montesano, non si faceva molti scrupoli.»

«Beh, c’è poco da girarci intorno, è una persona spiacevole, un’autentica canaglia. Non si è mai pentito di quel che ha fatto. Al processo guardava con disprezzo i genitori di Giovanna Curcio, quasi fossero loro i veri responsabili della morte della loro figlia. Nel film abbiamo preferito delineare una figura più umana, l’imprenditore interpretato da Peppe Servillo è un personaggio diverso da Biagio Maceri, di sicuro è molto meno spietato di lui. Per come vanno oggi le cose, non ha più senso parlare di classe operaia. È venuta meno, di conseguenza, anche la coscienza di classe. Le distanze tra imprenditori e operai si sono accorciate, molto spesso le disgrazie degli uni coincidono con quelle degli altri. Operai e padroni si ritrovano perciò a condividere il ruolo di vittime. Anche se, sia chiaro, continuano a esistere gli speculatori, gli imprenditori come Biagio Maceri che se ne fregano di tutto e si arricchiscono sulla pelle dei lavoratori. Qui al sud ce ne sono tanti, tantissimi. Anche in questa zona.»

«Cos’è che ci condanna a questa deprimente agonia?»

«La peggiore delle nostre malattie è la sonnolenza civile, uno stato di torpore che sembra non avere fine. Viviamo in un paese dilaniato dal malaffare. Eppure accettiamo tutto, senza battere ciglio, passivamente. E invece dovremmo ribellarci, ciascuno di noi dovrebbe diventare una sentinella dei propri diritti e del proprio territorio. È un dovere civico che spetta a tutti, a me che faccio il regista tanto quanto a un imbianchino o a un fioraio. Anche la politica ha smesso ormai da tempo di essere uno strumento al servizio del popolo, dovremmo avere gli occhi sempre ben aperti e imparare a difenderci finanche da essa.»

«Sotto questo aspetto, il tuo film potrebbe insegnarci tanto.»

«La rabbia ha avuto un ruolo importante nella genesi di questo film, sentivo il bisogno di rispondere alla passività che mi circondava. Volevo raccontare una storia che onorasse la memoria delle due donne morte nell’incendio per scongiurare, al tempo stesso, il ripetersi di tragedie simili. Tuttavia, credo che il cinema, più che offrire risposte, debba porre delle domande. L’arte ha il compito di esprimere le nostre inquietudini, deve sollevare dubbi, deve far nascere nuovi interrogativi sulla realtà in cui viviamo.»

«È l’esatta descrizione della tua intera produzione cinematografica.»

«Ho sempre puntato il mio obiettivo sui guasti della società. Nel mio primo documentario, ad esempio, affrontavo il tema della dispersione scolastica. Si intitolava “Pesci combattenti” e parlava dei maestri di strada che a Napoli, nell’ambito del progetto “Chance”, recuperavano i ragazzini delle periferie per inserirli in un percorso scolastico alternativo. In quel momento ho capito qual era la mia vera missione. La mia passione per il reale, però, ha radici che affondano molto più indietro nel tempo. Da ragazzo mi innamorai dei grandi autori del neorealismo, ma fu “Mary per sempre” di Marco Risi a folgorarmi e a convincermi a iscrivermi a una scuola di cinema. Così, dopo il diploma, anche se i miei genitori sognavano per me un futuro ben diverso, mi trasferii a Roma, dove ho frequentato il NUCT, la Nuova Università del cinema e della televisione. Lì ho avuto la fortuna di ritrovarmi di fronte a giganti del cinema come Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, Ugo Pirro, Ettore Scola. Oltre a trasmettermi i dettami del linguaggio cinematografico, mi hanno insegnato – prima di ogni altra cosa – la passione civile.»

«Una passione che non hai mai tradito e che ha generato frutti coraggiosi come “Biùtiful cauntri”.»

«Quel film ha avuto il merito di scoperchiare un mondo completamente nascosto, ho raccontato una realtà su cui regnava un silenzio di tomba. È servito a far prendere coscienza di ciò che stava accadendo in Campania. Dopo “Biùtiful cauntri” nessuno più si è preso il lusso di far finta di non sapere che stavano avvelenando la nostra terra, così come dopo Ragazzi di vita di Pasolini tutti hanno dovuto fare i conti con l’esistenza di un universo problematico e disperato come le borgate romane. Ciò che più mi stupisce è che tanti politici, coinvolti in questo scandalo, siano rimasti al proprio posto, facendo finta di niente e trovando addirittura il coraggio di ripresentarsi alle elezioni, come se tutto ciò che è accaduto non li riguardasse minimamente o come se l’aver ottenuto l’assoluzione da un giudice significasse non essere moralmente colpevoli di un simile disastro. Questo mi spinge a credere che non sia cambiato granché dal punto di vista del traffico illecito dei rifiuti.»

«Insomma, la tua terra ha ancora bisogno dei film di Andrea D’Ambrosio.»

«I film migliori si girano in provincia, è lì che nascono le storie più interessanti. Anche se le grosse case di produzione risiedono ancora nelle grandi metropoli, non ho mai pensato fosse un limite il fatto di vivere al sud e di abitare in una città di provincia. A dirla tutta, si tratta di una questione di amore verso la propria terra. E io non ho difficoltà a fare qui il mio mestiere. Anzi, mentre tanti si sacrificano in lavori che odiano o che non li soddisfano, io mi ritrovo a fare esattamente ciò che mi piace fare. Anche se è una vita un po’ garibaldina, è proprio ciò a cui ho sempre aspirato.»

Il regista Andrea D’Ambrosio – Foto di Valentina Gaudiosi

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