Cronaca

Il Tar chiude Gana Sport, Gammella ed Eurofer a Battipaglia: stop al commercio in area industriale

Gana Sport, Gammella ed Eurofer non potevano praticare commercio al dettaglio sulla zona industriale di Battipaglia. Lo sapeva il Comune di Battipaglia, che nel 2008 aveva imposto la chiusura immediata delle attività commerciali. Ma ci sono voluti 12 anni al Tar per esprimersi sull’argomento. Tre le sentenze emesse dal Tribunale amministrativo regionale, che hanno dato tutte ragione al Comune di Battipaglia, difeso dall’avvocato Carla Concilio. Le tre aziende, invece, erano state difese dall’avvocato Marcello Fortunato.

Battipaglia: il Tar chiude Gana Sport, Gammella ed Eurofer sulla zona industriale

Nel 2008, il Comune di Battipaglia aveva emesso, a firma del dirigente Giuseppe Ragone, un’ordinanza di chiusura delle tre attività commerciali, che non potevano praticare vendita al dettaglio in area industriale. Gana Sport è un negozio di articoli sportivi, Gammella vende mobili, Eurofer è una ferramenta.

I negozi in zona Asi non possono esistere, vista la destinazione d’uso dell’area industriale. Un concetto che il Tar ha chiarito ulteriormente dopo 12 anni. Con buona pace di Gana Sport, Gammella ed Eurofer. Che dovranno chiudere i loro negozi.

eurofer battipaglia


Gana Sport: la sentenza

Pubblicato il 16/01/2020

N. 00089/2020 REG.PROV.COLL.

N. 00092/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 92 del 2008, proposto da
Gana Sport S.a.s. di Cannalonga Elia & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marcello Fortunato, con domicilio eletto presso il suo studio, in Salerno, via SS. Martiri Salernitani, 31;

contro

Comune di Battipaglia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Carla Concilio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

e con l’intervento di

ad opponendum:
Francesco Magliano, rappresentato e difeso dall’avvocato Ferdinando Belmonte, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giuseppe Maria Riccio in Salerno, via Bastioni, 41/B;

per l’annullamento

dell’ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008, disponente la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di articoli sportivi.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Battipaglia;

Visto l’intervento ad opponendum di Francesco Magliano;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 novembre 2019 il dott. Olindo Di Popolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1. Col ricorso in epigrafe, la Gana Sport s.a.s. di Cannalonga Elia & C. (in appresso, G. S.) impugnava, chiedendone l’annullamento: – l’ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008, con la quale il Dirigente del Settore Tributario e Attività Economiche e Produttive del Comune di Battipaglia, previa comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 di cui alla nota del 31 dicembre 2007, prot. n. 85576, aveva disposto la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di articoli sportivi presso i locali ubicati in Battipaglia, viale Danimarca, n. 29, e censiti in catasto al foglio 7, particella 2012; – il verbale di accertamento della Polizia Municipale di Battipaglia n. 11/L.C. del 17 ottobre 2006; – il rapporto della Polizia Municipale di Battipaglia prot. n. 14090 del 5 marzo 2007.

2. L’adottata misura interdittiva era motivata, sulla scorta delle risultanze del verbale di accertamento n. 11/L.C. del 17 ottobre 2006 e del rapporto del 5 marzo 2007, prot. n. 14090, a cura della Polizia Municipale di Battipaglia, segnatamente, in base al duplice rilievo che, da un lato, l’attività di vendita al dettaglio insediata presso il suindicato immobile, localizzato in Battipaglia, viale Danimarca, n. 29, e censito in catasto al foglio 7, particella 2012, risultava incompatibile con la destinazione industriale riservata all’area di ubicazione e che, d’altro lato, la sua configurazione in termini di esercizio di vicinato risultava incompatibile con l’estensione (mq 1.291,00) dei locali ad esso adibiti, corrispondente a quella (mq 250 – 2.500 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) propria di una media struttura di vendita, postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998.

3. Nell’avversare l’impugnata ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008, l’impresa ricorrente lamentava, in estrema sintesi, che: a) erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che con concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, previo apposito nulla osta del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (ASI) di Salerno prot. n. 597 del 26 febbraio 1994, sarebbe stato assentito il cambio della destinazione d’uso dei locali de quibus da industriale a commerciale; b) in ogni caso, prima di interdire l’attività commerciale esercitata dalla G. S., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultima ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario di cui all’autorizzazione sindacale prot. n. 1802 del 21 maggio 1991; c) la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della l. n. 426/1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario; d) il provvedimento impugnato sarebbe stato, infine, carente di congrua motivazione.

4. Costituitosi l’intimato Comune di Battipaglia, eccepiva l’infondatezza del gravame esperito ex adverso.

Interveniva, altresì, ad opponendum Magliano Francesco (in appresso, M. F.).

5. All’udienza pubblica del 18 novembre 2019, la causa era trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. In rito, va rilevato il difetto di legittimazione del M. a spiegare intervento ad opponendum.

L’interventore ha, in particolare, giustificato la propria iniziativa processuale con la propria posizione di «residente, dipendente e contribuente» del Comune di Battipaglia, nonché di autore dell’esposto originante l’adozione degli atti amministrativi impugnati.

In proposito, giova rammentare che, per ius receptum: «nel processo amministrativo l’intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale» (Cons. Stato, ad. plen., 4 novembre 2016, n. 23; 30 agosto 2018, n. 13); «nel processo amministrativo, per l’ammissibilità dell’intervento ad opponendum, è sufficiente che l’interventore possa vantare un interesse di fatto rispetto alla controversia, che sia avvinto da un nesso di dipendenza o accessorietà rispetto a quello azionato in via principale e che gli consenta di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dall’accoglimento del ricorso» (Cons. Stato, sez. III, 22 marzo 2017, n. 1303); «presupposto perché nel processo amministrativo possa spiegarsi l’intervento ad opponendum è vantare una posizione indiretta e derivata, seppur minore rispetto a quella che avrebbe radicato l’interesse a proporre autonomo ricorso, atteso che nel processo amministrativo, ai fini dell’ammissibilità dell’intervento ad opponendum, non è richiesta la titolarità di una posizione giuridica autonoma coincidente con quella che radica la legittimazione al ricorso, essendo sufficiente che il terzo, indipendentemente dalla circostanza che abbia o non personalità giuridica, sia titolare di un interesse che abbia un suo rilievo giuridico, che valga, comunque, a differenziarlo dalla generalità dei consociati; di conseguenza, basta che l’interveniente possa vantare un interesse di fatto, dipendente da quello azionato in via principale o ad esso accessorio, ovvero sotteso al mantenimento dei provvedimenti impugnati, che gli consenta di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso» (Cons. Stato, sez. IV, 10 febbraio 2017, n. 573).

In altre parole, alla stregua dei richiamati arresti giurisprudenziali risulta essenziale che l’interventore ad opponendum tragga, sia pur di riflesso, una qualche utilità dal provvedimento impugnato, e quindi dalla reiezione del ricorso (cfr. Cons, di Stato, sez. V, 8 aprile 2014, n. 1669; TAR Puglia, Lecce, 16 gennaio 2014, n. 130; TAR Lazio, Roma, 12 novembre 2015, n. 12843; TAR Campania, Napoli, 27 agosto 2019, n. 4415).

Ciò posto, nel caso in esame, il M. non ha chiarito in qual modo l’eventuale reiezione del ricorso in epigrafe sarebbe suscettibile di recargli una qualche utilità, sia pure di mero fatto.

L’unica ragione posta dall’interventore a base della propria legittimazione processuale è, infatti, come detto, quella incentrata sulla propria posizione di «residente, dipendente e contribuente» del Comune di Battipaglia, nonché di autore dell’esposto originante l’adozione degli atti amministrativi impugnati, ossia su una posizione giuridica che in nulla si distingue da quella indifferenziata del quivis de populo.

Come già chiarito da questa Sezione con riferimento ad una fattispecie analoga, la qualità di residente, dipendente e contribuente del Comune che ha adottato i provvedimenti gravati o nella cui area le vicende di causa hanno preso luogo, ovvero di autore di esposti o denunce, «sono … circostanze che non valgono, ciascuna di per sé, e persino unitariamente considerate, a fondare la legittimazione ad intervenire, poiché, in primis, non è dato ravvisare alcuna situazione giuridica soggettiva riconosciuta dalla legge in capo all’interventore “collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale”; in secundis e a fortiori, non si vede come l’esito dei contenziosi in cui costui è intervenuto possa determinare un vantaggio per la sua sfera giuridica, collegato alla posizione della parte osteggiata, oppure come la sua sfera giuridica possa essere condizionata dal disconoscimento del bene della vita che la parte osteggiata patisca dalla soccombenza nel presente processo» (sent. n. 14 del 7 gennaio 2019; cfr. anche, in tal senso, TAR Sicilia, Catania, sez. IV, 20 gennaio 2017, n. 108).

2. Venendo ora a scrutinare il ricorso nel merito, esso si rivela infondato per le ragioni illustrate in appresso.

3. Innanzitutto, privo di pregio è l’assunto attoreo secondo cui erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che con concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, previo apposito nulla osta del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (ASI) di Salerno prot. n. 597 del 26 febbraio 1994, sarebbe stato assentito il cambio di destinazione d’uso dei locali de quibus da industriale a commerciale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.a).

Se è vero, infatti, che con la concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994 era stato assentito il cambio di destinazione d’uso «di porzione dei propri locali, siti in Battipaglia al viale Danimarca, da attività industriale ad attività di esposizione e commercializzazione dei … prodotti», è altrettanto vero che questi ultimi figuravano espressamente e unicamente qualificati come «propri» – peraltro, della G. S. s.r.l., e non della proponente G. S. s.a.s. –; ed è altrettanto vero che il prodromico nulla osta di cui alla nota del Consorzio ASI di Salerno prot. n. 597 del 26 febbraio 1994 faceva riferimento alla «destinazione di un’area inferiore al 5% dell’intera superficie coperta dell’impianto ad attività di esposizione e commercializzazione dei prodotti di competenza del proprio settore industriale». Laddove, invece, come emergente dal verbale di ispezione e di accertamento del 17 ottobre 2006, nonché dal rapporto del 5 marzo 2007, prot. n. 14090, a cura della Polizia Municipale di Battipaglia, fidefacienti fino a querela di falso, la G. S. s.a.s. ha apertamente debordato dai suindicati limiti qualitativi e quantitativi consentiti per l’utilizzo commerciale dell’immobile ubicato in Battipaglia, viale Danimarca, n. 29, e censito in catasto al foglio 7, particella 2012.

In dettaglio, nel citato verbale di ispezione e di accertamento della Polizia Municipale di Battipaglia del 17 ottobre 2006 si rileva che, a fronte di una comunicazione di apertura di un’attività di vendita al dettaglio in regime di vicinato (prot. n. 46765 del 1° ottobre 2004), «la vendita veniva effettuata su una superficie ampiamente superiore, venendosi così a configurare un’attività di media struttura».

Ancor più in dettaglio, a tenore del citato rapporto della Polizia Municipale di Battipaglia prot. n. 14090 del 5 marzo 2007: «Come si evince dalla visura camerale, la ditta è iscritta al Repertorio Economico Amministrativo (REA) presso la C.C.I.A.A. di Salerno … ed ha per oggetto, tra l’altro, la produzione e vendita di articoli sportivi in genere, di abbigliamento sportivo, di calzature sportive di ogni tipo, di attrezzi ginnici, nonché di attrezzature sportive per palestre e per impianti sportivi all’aperto, di tappetini ed ogni altro accessorio per lo sport ed il tempo libero; la vendita di manufatti di produzione propria riguardanti gli articoli come sopra identificati. Nel corso dell’ispezione effettuata in data 17 ottobre 2006, tuttavia, è risultato che in parte del capannone industriale, come si evince pure dalla comunicazione di inizio attività di esercizio di commercio al dettaglio di vicinato, acquisita al protocollo generale dell’ente con il n. 46769 del 1° ottobre 2004, la società G. S. s.a.s. esercita l’attività di vendita al dettaglio di articoli ed accessori sportivi in una media struttura di vendita senza la prescritta autorizzazione e in assenza della prevista destinazione d’uso dei locali utilizzati per l’esercizio del commercio. (…). Dalle misurazioni effettuate dal personale tecnico intervenuto, infatti, è emerso che la G. S. s.a.s. effettua l’attività commerciale di una media struttura, senza essere in possesso della prescritta autorizzazione amministrativa. Infatti, la società suddetta destinava ad attività di vendita una superficie utile pari a mq 1.291,00. (…). All’esito degli accertamenti è risultato che le attività commerciali svolte … ricadono in zona D1, destinata ad attività industriali-produttive. La società G. S. s.a.s., in particolare, pur in possesso di concessione prot. n. 4705 del 23 marzo 1994 rilasciata dal Sindaco del Comune di Battipaglia per il cambio di destinazione d’uso di porzione dei propri locali da attività industriale ad attività di esposizione e commercializzazione dei propri prodotti, dagli accertamenti esperiti, è emerso che la società suddetta espone e commercializza anche e, soprattutto, prodotti di marchi nazionali e stranieri».

4. La ricorrente neppure coglie nel segno, allorquando sostiene che l’amministrazione comunale resistente, prima di interdire l’attività commerciale esercitata dalla G. S., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultima ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario di cui all’autorizzazione sindacale prot. n. 1802 del 21 maggio 1991 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.b).

La tesi attorea si infrange contro il rilievo dirimente che il menzionato titolo annonario si limitava ad autorizzare, ab origine, l’esercizio commerciale insediato presso i locali ubicati in Battipaglia, alla via R. Iemma, n. 30-32, e ad autorizzarne, successivamente, il trasferimento da quest’ultima sede a quella controversa, ubicata sempre in Battipaglia, al viale Danimarca, n. 29, nonché assentita giusta concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, sotto l’espressa condizione che «siano verificati dal Comando VV.UU. i mq della superficie di vendita».

Essendosi acclarata – come illustrato retro, sub n. 3 – l’inosservanza di tale limitazione da parte della G. S., ed essendosi, quindi, acclarato che l’attività di vendita esercitata presso i locali di viale Danimarca, n. 29, era difforme dal paradigma abilitativo, l’amministrazione comunale è rimasta, dunque, nella legittima condizione di esperire direttamente – senza l’intermediazione delle forme e le garanzie proprie dell’autotutela invocate da parte ricorrente – i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento in materia commerciale. In altre parole, essendosi riscontrati gli estremi dell’abusivo esercizio di attività, i poteri anzidetti si sono correttamente incanalati nell’alveo naturale e vincolato del ripristino della legalità violata.

A quanto sopra è appena il caso di soggiungere che la gravata ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008 è stata, comunque, preceduta dalla comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 di cui alla nota del 31 dicembre 2007, prot. n. 85576, e che nell’oggettiva non conformità dell’uso commerciale in concreto riservato ai locali de quibus sia rispetto alla destinazione urbanistica di zona sia rispetto alle prescrizioni del rilasciato titolo edilizio (concessione edilizia prot. n. 4705 del 23 marzo 1994, rilasciata previo nulla osta del Consorzio ASI di Salerno prot. n. 597 del 26 febbraio 1994) risiedevano, comunque, in re ipsa, le ragioni di interesse pubblico giustificative della rimozione di qualsivoglia titolo annonario emesso in relazione ad un immobile inidoneo sotto il profilo urbanistico-edilizio.

5. La G. S. non può, poi, fondatamente assumere che la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della l. n. 426/1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.c).

5.1. Tale censura è, in primis, dequotata dalle considerazioni svolte retro, sub n. 3-4, circa la difformità dell’attività commerciale esercitata dalla ricorrente rispetto al paradigma normativo-abilitativo, e, quindi, circa la sua illiceità, la quale, per la sua natura permanente, non poteva restare sottratta, nel suo protrarsi, al regime sanzionatorio frattanto sopravvenuto (art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 114/1998).

5.2. Ad ulteriore ripudio della proposizione attorea, milita, in ogni caso, il tenore del comb. disp. artt. 24 («L’apertura di esercizi al minuto, il trasferimento in altra zona e l’ampliamento degli esercizi già esistenti mediante l’acquisizione di nuovi locali di vendita, sono soggetti ad autorizzazione amministrativa. L’autorizzazione è rilasciata dal sindaco del comune nel cui territorio ha sede l’esercizio, sentito il parere delle commissioni di cui agli articoli 15 e 16, con la osservanza dei criteri stabiliti dal piano. È soggetto alla sola comunicazione al sindaco l’ampliamento che non eccede il 20 per cento della superficie di vendita originaria dell’esercizio per una sola volta, applicandosi alle nuove superfici o ai nuovi volumi le contribuzioni o gli oneri previsti dalle leggi vigenti. L’autorizzazione, fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge») e 39 della l. n. 426/1971 («Chiunque viola le disposizioni di cui agli articoli 1, 2, 3, 4, 9, 24, 26, 27, 34, 35, 36 e 38 della presente legge è punito con l’ammenda da lire 20.000 a 5.000.000. In caso di particolare gravità o di recidiva il sindaco può inoltre disporre la chiusura dell’esercizio per un periodo non superiore a venti giorni. Il sindaco ordina la chiusura dell’esercizio qualora il suo titolare non risulti iscritto nel registro di cui all’art. 1 o ne sia stato cancellato, ovvero non sia in possesso dell’autorizzazione prescritta dalla presente legge»).

Ed invero, è del tutto perspicuo il riferimento della disciplina dianzi richiamata al necessario «rispetto … delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane», cosicché l’attività commerciale esercitata in violazione di tali norme è da intendersi esulante dal perimetro del relativo modello ordinamentale e, quindi, assoggettata alla prevista sanzione interdittiva.

Il suindicato approccio ermeneutico è stato, d’altronde, già autorevolmente accreditato nel vigore della citata della l. n. 426/1971.

«Sul piano dei principi, – recita, al riguardo, Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639 – il primo riferimento va fatto alla l. 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo.

Non v’è dubbio che, quando vi si afferma che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge” (art. 1), non si fa altro che ribadire i principi, di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità degli atti nei quali essa si concreta, sui quali il riferito orientamento giurisprudenziale si fonda.

Di essi, tuttavia, la disposizione modula la portata attribuendo dignità di criteri normativi, chiamati a reggere la predetta attività, ai concetti di economicità, semplicità, celerità, efficacia, fin ora non esplicitati.

In questa ottica la legge, che espressamente prevede (art. 14) l’ipotesi di una pluralità di interessi pubblici coinvolti in uno stesso procedimento amministrativo e di un loro “esame contestuale”, disegna un modello di procedimento in cui una delle funzioni principali è proprio quella di coordinamento ed organizzazione dei fini pubblici, come dimostrano istituti quali la comunicazione dell’avvio di procedimento, la partecipazione degli interessati, il responsabile del procedimento, la conferenza di servizi.

A ben vedere, per altro, la legge n. 241 del 1990 rappresenta una più compiuta esplicitazione dei contenuti del canone costituzionale del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sicché l’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, come nel settore che ci occupa, si pone contro il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione.

È quanto indubbiamente accade ove il Comune che, nell’esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica, abbia escluso l’attività commerciale in una determinata zona urbana possa, poi, in sede di rilascio di provvedimenti abilitativi o, comunque, nell’espletamento della funzione di controllo dell’uso del territorio, consentire e reprimere, la medesima condotta del privato in considerazione della destinazione d’uso di una stessa unità immobiliare, a seconda che eserciti poteri in materia commerciale o urbanistica.

L’autorizzazione commerciale (in contrasto con le previsioni urbanistico-edilizie) sarebbe, dunque, rilasciata nella piena consapevolezza dell’esistenza dei presupposti che impongono di paralizzarne l’esercizio.

Quanto all’uso del territorio, per altro, le materie dell’urbanistica e del commercio sono tra loro interferenti e nell’attuale sistema legislativo sono positivamente coordinate. (…).

La disciplina urbanistica riguarda, in particolare, la funzione pianificatoria nell’esercizio della quale i vari modi di uso del territorio, inclusi quelli relativi al commercio, sono tra loro armonizzati stabilendo innanzitutto i caratteri delle diverse zone territoriali, ai quali, poi, la destinazione degli immobili di cui sia consentita la localizzazione nelle singole zone deve conformarsi.

Per altro verso, la normativa in materia di commercio, nel definire le finalità fondamentali del piano di sviluppo commerciale, prescrive, in coerenza, che esso dev’essere redatto “nel rispetto delle previsioni urbanistiche” (art. 11 della l. 11 giugno 1971 n. 426) e, dunque, in conformità delle scelte di pianificazione territoriale.

Ancora, tra i contenuti obbligatori degli strumenti urbanistici generali, l’art. 13 primo comma della citata legge organica n. 426 del 1971 pone “le norme per l’insediamento di attività commerciali e, in particolare, le quantità minime di spazi per parcheggi in funzione delle caratteristiche dei punti di vendita” e al secondo comma prevede che “nei piani regolatori particolareggiati e nelle lottizzazioni convenzionate sono determinati gli spazi eventualmente riservati ai centri commerciali all’ingrosso e al dettaglio, ivi compresi i mercati rionali, ed ai grandi esercizi di vendita …”.

Appare opportuno evidenziare, al riguardo, come il legislatore abbia provveduto ad integrare il quadro normativo in materia di urbanistica nel corpo di una legge concernente il commercio, con chiare finalità di coordinamento tra le relative pianificazioni e, per altro, istituendo un rapporto di sovraordinazione della disciplina urbanistica rispetto a quella commerciale.

Ne consegue che la distribuzione degli esercizi commerciali deve rispettare le previsioni del piano urbanistico e delle norme che lo integrano, di talché non può non scaturirne l’obbligo di conformarsi ad esse anche nell’adozione degli atti applicativi del piano di commercio e cioè dei singoli atti autorizzatori.

In ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali.

Così, il già citato art. 24 l. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”.

Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 l. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere esercitate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma).

Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa. Sicché, per quanto nel nostro caso interessa, deve ritenersi che il “rispetto della destinazione d’uso dei locali e degli edifici” è voluto dal legislatore quale requisito necessario per lo svolgimento dell’attività commerciale che in essi debba svolgersi e, pertanto, anche per il rilascio delle correlate autorizzazioni.

Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che nelle materie del commercio e dell’edilizia poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio.

A chiusura del sistema, del resto, va notato che tra le norme di cui il menzionato art. 24 l. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta» (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2002, n. 5656; sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 4880).

La soluzione adottata risponde, per di più, a ragionevoli canoni di interpretazione evolutiva, rivenienti da comb. disp. artt. 7 («L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ai limiti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d, di un esercizio di vicinato sono soggetti a previa comunicazione al comune competente per territorio e possono essere effettuati decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Nella segnalazione certificata di inizio di attività di cui al comma 1 il soggetto interessato dichiara: b) di avere rispettato i regolamenti locali di polizia urbana, annonaria e igienico-sanitaria, i regolamenti edilizi e le norme urbanistiche nonché quelle relative alle destinazioni d’uso …»), 8 («L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ai limiti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera e, di una media struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal comune competente per territorio, anche in relazione agli obiettivi di cui all’articolo 6, comma 1 …») e 22, comma 6 («In caso di svolgimento abusivo dell’attività il sindaco ordina la chiusura immediata dell’esercizio di vendita) del d.lgs. n. 114/1998.

6. Infondata è, infine la censura di deficit motivazionale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.d).

L’ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008 figura, infatti, perspicuamente e congruamente argomentata in base al duplice rilievo che, da un lato, l’attività di vendita al dettaglio insediata presso il suindicato immobile, localizzato in Battipaglia, viale Danimarca, n. 29, e censito in catasto al foglio 7, particella 2012 risultava incompatibile con la destinazione industriale riservata all’area di ubicazione e che, d’altro lato, la sua configurazione in termini di esercizio di vicinato risultava incompatibile con l’estensione (mq 1.291,00) dei locali ad esso adibiti, corrispondente a quella (mq 250 – 2.500 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) propria di una media struttura di vendita, postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998.

7. In conclusione, stante la ravvisata infondatezza di tutte le censure proposte, così come dianzi scrutinate, il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

8. Quanto alle spese di lite: – nei confronti del Comune di Battipaglia, esse devono seguire la soccombenza e, quindi, liquidarsi nella misura indicata in dispositivo; – nei confronti di M. F., sussistono giusti motivi per disporne la compensazione.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando:

– respinge il ricorso in epigrafe;

– dichiara inammissibile l’intervento ad opponendum di Magliano Francesco;

– condanna la Gana Sport s.a.s. di Cannalonga Elia & C. al pagamento delle spese di lite, che si liquidano nella misura complessiva di € 2.500,00 (oltre oneri accessori, se dovuti), in favore del Comune di Battipaglia;

– compensa le spese tra la Gana Sport s.a.s. di Cannalonga Elia & C. e Magliano Francesco.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:

Maria Abbruzzese, Presidente

Paolo Severini, Consigliere

Olindo Di Popolo, Consigliere, Estensore


Gammella: la sentenza

Pubblicato il 16/01/2020

N. 00086/2020 REG.PROV.COLL.

N. 00740/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 740 del 2008, integrato da motivi aggiunti, proposto da
Centro Commerciale Gammella s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Marcello Fortunato, con domicilio eletto presso il suo studio, in Salerno, via SS. Martiri Salernitani, 31;

contro

Comune di Battipaglia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Carla Concilio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per l’annullamento

delle ordinanze n. 93 dell’11 marzo 2008 e n. 58 del 17 febbraio 2009, disponenti la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di mobili ed elettrodomestici.

 

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Battipaglia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 novembre 2019 il dott. Olindo Di Popolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1. Col ricorso in epigrafe, il Centro Commerciale Gammella s.r.l. (in appresso, C. C. G.) impugnava, chiedendone l’annullamento: – l’ordinanza n. 93 dell’11 marzo 2008, con la quale il Dirigente del Settore Tributario e Attività Economiche e Produttive del Comune di Battipaglia, previa comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 di cui alla nota del 31 gennaio 2008, prot. n. 8379, aveva disposto la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di mobili ed elettrodomestici presso i locali ubicati in Battipaglia, via Brodolini, n. 15; – il rapporto della Polizia Municipale di Battipaglia prot. n. 4870 del 18 gennaio 2008.

2. L’adottata misura interdittiva era motivata, sulla scorta delle risultanze del verbale di accertamento del 19 aprile 2007 a cura della Polizia Municipale di Battipaglia, segnatamente, in base al rilievo che l’attività di vendita al dettaglio insediata all’interno dei suindicati immobili (capannoni), in proprietà della GORI s.r.l. (in appresso, G.) e della F.lli Gammella di Gammella Gaetano & C. s.a.s. (in appresso, F.lli G.), nonché in comodato al C. C. G., localizzati in Battipaglia, via Brodolini, n. 15, risultava incompatibile con la destinazione industriale riservata all’area di ubicazione.

3. Nell’avversare l’impugnata ordinanza n. 93 dell’11 marzo 2008, l’impresa ricorrente lamentava che: a) erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che, giusta licenza edilizia prot. n. 16106 del 13 febbraio 1976, i capannoni de quibus sarebbero stati assentiti con destinazione a «sala esposizione e vendita»; b) in ogni caso, prima di interdire l’attività esercitata dal C. C. G., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultimo ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario formatosi tramite la comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234, avente per oggetto l’apertura di un esercizio di vicinato presso i locali anzidetti; c) la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della l. n. 426/1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario.

4. Costituitosi l’intimato Comune di Battipaglia, eccepiva l’infondatezza del gravame esperito ex adverso.

5. In esito alla camera di consiglio del 29 maggio 2009, questa Sezione, con ordinanza n. 526/2008 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanza n. 4244/2008), accoglieva, al solo fine di scongiurare il paventato danno grave e irreparabile, la proposta domanda incidentale di sospensione della gravata ordinanza n. 93 dell’11 marzo 2008.

6. Successivamente, il Dirigente del Settore Tributario e Attività Economiche e Produttive del Comune di Battipaglia, previo rapporto del 1° ottobre 2008, prot. n. 72850, e verbale di accertamento n. 12/L.C. del 16 settembre 2008, nonché previa comunicazione ex art. 7 della l. n. 241/1990 di cui alla nota del 13 gennaio 2009, prot. n. 1976, reiterava, con ordinanza n. 58 del 17 febbraio 2009 (prot. n. 12127), la misura interdittiva in precedenza adottata.

Ciò, in base al duplice rilievo che, da un lato, con la comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234, il C. C. G. avrebbe falsamente comunicato il proprio subingresso (alla ditta individuale G. G.) nell’attività di vendita al dettaglio in regime di vicinato presso la struttura ubicata in Battipaglia, in via Brodolini, n. 15, anziché in viale delle Industrie, n. 1, così come da atto di cessione di azienda del 19 novembre 2001, e, d’altro lato, che detta attività commerciale sarebbe stata esercitata in assenza del certificato di “igienicità” dei locali.

7. Siffatta determinazione era impugnata dal C. C. G. con motivi aggiunti.

8. A sostegno dell’ulteriore gravame, il proponente deduceva che: a) la reiterazione della misura interdittiva sarebbe stata disposta in violazione del dictum cautelare di cui ordinanza di questa Sezione n. 526/2008 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanza n. 4244/2008); b) erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che, giusta comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234, il C. C. G. sarebbe stato abilitato all’esercizio di vicinato presso gli immobili di relativo insediamento; conseguentemente, prima di interdire l’attività esercitata dal C. C. G., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultimo ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario formatosi tramite la menzionata comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234; c) la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della l. n. 426/1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario; d) la contestata discordanza tra l’ubicazione riportata nella comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234 (via Brodolini, n. 15) e l’ubicazione dell’azienda acquisita formante oggetto di quest’ultima (viale delle Industrie, n. 1) sarebbe dipesa dalla circostanza che si tratterebbe di due distinti accessi al medesimo fabbricato; e) la contestata assenza del certificato di “igienicità” dei locali avrebbe afferito ad un profilo edilizio esulante dal perimetro dell’esperito potere di vigilanza commerciale e, in ogni caso, sarebbe stata irrilevante in rapporto alla categoria merceologica trattata, nonché sanzionabile in via esclusivamente pecuniaria; f) il provvedimento impugnato sarebbe stato, infine, carente di congrua motivazione.

9. In esito alla camera di consiglio del 28 maggio 2009, questa Sezione, con ordinanza n. 108/2009, oltre a sospendere interinalmente gli effetti dell’ordinanza n. 58 del 17 febbraio 2009, disponeva una verificazione, a cura del Provveditore Interregionale alle Opere Pubbliche Campania e Molise, volta a chiarire il ravvisato «contrasto in ordine all’esistenza di due distinte attività agli indirizzi di via delle Industrie, n. 1, e via Brodolini, n. 15».

In assolvimento del disposto incombente istruttorio, il funzionario designato quale tecnico incaricato dal Provveditore Interregionale alle Opere Pubbliche Campania e Molise, depositava, in data 1° ottobre 2009, la propria relazione di verificazione.

Nel formulare il resoconto degli accertamenti eseguiti, il tecnico verificatore rilevava «l’esistenza di un’unica attività, riguardante la vendita al dettaglio e all’ingrosso di mobili ed elettrodomestici, che si svolge nello stesso … locale, ubicato alla confluenza della via dell’Industria e della via Brodolini»; annotava, quindi, che «gli accessi all’attività commerciale … sono due, il primo ubicato alla via delle Industrie, n. 1, dove questo è segnalato da un’insegna … e l’altro, pur esso testimoniato dalla stessa, ubicato alla via Brodolini, n. 15».

9. Tali conclusioni erano contestate dal Comune di Battipaglia in una documentata relazione, depositata il 29 ottobre 2009, sulla base del precipuo rilievo della confusione del capannone e dell’accesso del C. C. G. con quelli in proprietà di altra ditta.

10. Tenuto conto di siffatte contestazioni, ed avuto, comunque, riguardo al solo periculum in mora, questa Sezione, in esito all’udienza camerale del 29 ottobre 2009 per il prosieguo della trattazione dell’incidente cautelare, con ordinanza n. 983/2009, confermava la sospensione degli effetti dell’ordinanza n. 58 del 17 febbraio 2009 e, nel contempo, prescriveva al tecnico verificatore di rassegnare controdeduzioni alla cennata relazione comunale.

11. Infine, all’udienza pubblica del 18 novembre 2019, la causa era trattenuta in decisione, senza che l’incombente istruttorio supplementare a carico del tecnico verificatore risultasse assolto.

DIRITTO

1. In rito, osserva il Collegio che non è accreditabile la tesi di improcedibilità del ricorso introduttivo, propugnata dalla stessa proponente.

Ed invero, l’ordinanza n. 58 del 17 febbraio 2009 (impugnata con motivi aggiunti), pur avendo il medesimo oggetto (chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di mobili ed elettrodomestici presso i locali ubicati in Battipaglia, via Brodolini, n. 15), figura, all’evidenza, sorreggersi su basi motivazionali (cfr. retro, in narrativa, sub n. 6) completamente distinte ed autonome rispetto a quelle (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2) proprie della precedente ordinanza n. 93 dell’11 marzo 2008 (impugnata in via originaria).

Di conseguenza, la prima misura interdittiva è stata, bensì, sospesa negli effetti da questa Sezione, ai meri fini cautelari, con ordinanza n. 526/2008 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanza n. 4244/2008), ma, a dispetto delle proposizioni attoree, non è da intendersi rimossa e/o assorbita e/o sostituita dalla seconda (parimenti sospesa negli effetti con le ordinanze n. 108/2009 e n. 983/2009).

2. Venendo ora al merito, il ricorso introduttivo si rivela infondato per le ragioni illustrate in appresso.

3. Innanzitutto, non è accreditabile la censura secondo cui erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che, giusta licenza edilizia n. 16106 del 13 febbraio 1976, i capannoni de quibus sarebbero stati assentiti con destinazione a «sala esposizione e vendita» (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.a).

In senso reiettivo, milita il tenore dei seguenti atti esibiti in giudizio dalle parti:

a) licenza edilizia prot. n. 16106 del 13 febbraio 1976, rilasciata in favore di G. G. ed avente per oggetto la realizzazione di un «opificio industriale per la costruzione di mobili da cucina e piccoli elettrodomestici», dove, oltre a non figurare compiutamente identificati gli estremi ubicativi dell’edificio assentito, non emerge una specifica destinazione anche commerciale, se non da una planimetria progettuale a corredo, ritraente una «sala esposizione e vendita», ellittica, surrettizia e ininfluente ai fini abilitativi;

b) concessione edilizia prot. n. 12702 del 16 aprile 1981, rilasciata in favore della F.lli. G. ed avente per oggetto la realizzazione di uno «stabilimento industriale», dove, oltre a non figurare compiutamente identificati gli estremi ubicativi dell’edificio assentito, non emerge alcuna specifica destinazione anche commerciale;

c) nota del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale (ASI) di Salerno prot. n. 486 del 31 gennaio 2008, dove si attesta, in via dirimente, che, con riferimento all’area di insediamento del C. C. G., «nessuna richiesta e quindi nessuna autorizzazione è stata mai rilasciata da questo ente che rispetto al lotto in predicato ha a suo tempo rilasciato nulla osta … per l’attività di mobili e piccoli elettrodomestici, conformemente alla destinazione impressa alla zona dal PRTC ASI in “D – Insediamenti industriali”».

In altri termini, anche a prescindere dal perspicuo oggetto della licenza edilizia prot. n. 16106 del 13 febbraio 1976 e della concessione edilizia prot. n. 12702 del 16 aprile 1981, tali titoli non erano assistiti del necessario nulla osta del Consorzio ASI di Salerno quanto alla destinazione d’uso parzialmente commerciale riservata allo stabilimento occupato dal C. C. G. in aperta violazione di quella industriale, prevista dallo strumento urbanistico vigente.

4. Dalla reiezione della censura dianzi scrutinata discende logicamente anche la reiezione dell’ordine di doglianze rubricato retro, in narrativa, sub n. 3.b, secondo cui l’amministrazione comunale resistente, prima di interdire l’attività esercitata dal C. C. G., ed a fronte dell’affidamento in quest’ultimo ingenerato, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela i titoli annonari formatisi tramite la comunicazione del 6 dicembre 2001, prot. n. 44234, avente per oggetto l’apertura di un esercizio di vicinato presso i locali anzidetti.

La tesi attorea si infrange contro l’obiezione dirimente che il menzionato titolo annonario era da intendersi ovviamente formato nell’indefettibile presupposto della legittima destinazione commerciale dei locali adibiti all’attività avviata.

Essendosi acclarata – come illustrato retro, sub n. 3 – l’insussistenza di tale presupposto, ed essendosi, quindi, acclarato che l’attività di vendita di mobili ed elettrodomestici esercitata presso i locali di via Brodolini, n. 15, era difforme dal paradigma abilitativo, l’amministrazione comunale è rimasta, dunque, nella legittima condizione di esperire direttamente – senza l’intermediazione delle forme e le garanzie proprie dell’autotutela invocate da parte ricorrente – i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento in materia commerciale. In altre parole, essendosi riscontrati gli estremi dell’abusivo esercizio di attività, i poteri anzidetti si sono correttamente incanalati nell’alveo naturale e vincolato del ripristino della legalità violata.

5. Il C. C. G. non può, poi, fondatamente assumere che la disciplina applicabile ratione temporis (art. 24 della l. n. 426/1971, previgente rispetto all’art. 7 del d.lgs. n. 114/1998), non avrebbe postulato alcun nesso di presupposizione tra la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile e l’abilitazione commerciale degli esercizi ivi insediati, e, quindi, alcuna interrelazione necessaria tra titolo edilizio e titolo annonario (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.c).

5.1. Tale censura è, in primis, dequotata dalle considerazioni svolte retro, sub n. 3-4, circa la difformità dell’attività commerciale esercitata dalla ricorrente rispetto al paradigma normativo-abilitativo, e, quindi, circa la sua illiceità, la quale, per la sua natura permanente, non poteva restare sottratta, nel suo protrarsi, al regime sanzionatorio frattanto sopravvenuto (art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 114/1998).

5.2. Ad ulteriore ripudio della proposizione attorea, milita, in ogni caso, il tenore del comb. disp. artt. 24 («L’apertura di esercizi al minuto, il trasferimento in altra zona e l’ampliamento degli esercizi già esistenti mediante l’acquisizione di nuovi locali di vendita, sono soggetti ad autorizzazione amministrativa. L’autorizzazione è rilasciata dal sindaco del comune nel cui territorio ha sede l’esercizio, sentito il parere delle commissioni di cui agli articoli 15 e 16, con la osservanza dei criteri stabiliti dal piano. È soggetto alla sola comunicazione al sindaco l’ampliamento che non eccede il 20 per cento della superficie di vendita originaria dell’esercizio per una sola volta, applicandosi alle nuove superfici o ai nuovi volumi le contribuzioni o gli oneri previsti dalle leggi vigenti. L’autorizzazione, fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge») e 39 della l. n. 426/1971 («Chiunque viola le disposizioni di cui agli articoli 1, 2, 3, 4, 9, 24, 26, 27, 34, 35, 36 e 38 della presente legge è punito con l’ammenda da lire 20.000 a 5.000.000. In caso di particolare gravità o di recidiva il sindaco può inoltre disporre la chiusura dell’esercizio per un periodo non superiore a venti giorni. Il sindaco ordina la chiusura dell’esercizio qualora il suo titolare non risulti iscritto nel registro di cui all’art. 1 o ne sia stato cancellato, ovvero non sia in possesso dell’autorizzazione prescritta dalla presente legge»).

Ed invero, è del tutto perspicuo il riferimento della disciplina dianzi richiamata al necessario «rispetto … delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane», cosicché l’attività commerciale esercitata in violazione di tali norme è da intendersi esulante dal perimetro del relativo modello ordinamentale e, quindi, assoggettata alla prevista sanzione interdittiva.

Il suindicato approccio ermeneutico è stato, d’altronde, già autorevolmente accreditato nel vigore della citata della l. n. 426/1971.

«Sul piano dei principi, – recita, al riguardo, Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639 – il primo riferimento va fatto alla l. 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo.

Non v’è dubbio che, quando vi si afferma che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge” (art. 1), non si fa altro che ribadire i principi, di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità degli atti nei quali essa si concreta, sui quali il riferito orientamento giurisprudenziale si fonda.

Di essi, tuttavia, la disposizione modula la portata, attribuendo dignità di criteri normativi, chiamati a reggere la predetta attività, ai concetti di economicità, semplicità, celerità, efficacia, finora non esplicitati.

In questa ottica la legge, che espressamente prevede (art. 14) l’ipotesi di una pluralità di interessi pubblici coinvolti in uno stesso procedimento amministrativo e di un loro “esame contestuale”, disegna un modello di procedimento in cui una delle funzioni principali è proprio quella di coordinamento ed organizzazione dei fini pubblici, come dimostrano istituti quali la comunicazione dell’avvio di procedimento, la partecipazione degli interessati, il responsabile del procedimento, la conferenza di servizi.

A ben vedere, per altro, la legge n. 241 del 1990 rappresenta una più compiuta esplicitazione dei contenuti del canone costituzionale del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sicché l’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, come nel settore che ci occupa, si pone contro il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione.

È quanto indubbiamente accade ove il Comune che, nell’esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica, abbia escluso l’attività commerciale in una determinata zona urbana possa, poi, in sede di rilascio di provvedimenti abilitativi o, comunque, nell’espletamento della funzione di controllo dell’uso del territorio, consentire e reprimere la medesima condotta del privato in considerazione della destinazione d’uso di una stessa unità immobiliare, a seconda che eserciti poteri in materia commerciale o urbanistica.

L’autorizzazione commerciale (in contrasto con le previsioni urbanistico-edilizie) sarebbe, dunque, rilasciata nella piena consapevolezza dell’esistenza dei presupposti che impongono di paralizzarne l’esercizio.

Quanto all’uso del territorio, per altro, le materie dell’urbanistica e del commercio sono tra loro interferenti e nell’attuale sistema legislativo sono positivamente coordinate. (…).

La disciplina urbanistica riguarda, in particolare, la funzione pianificatoria nell’esercizio della quale i vari modi di uso del territorio, inclusi quelli relativi al commercio, sono tra loro armonizzati stabilendo innanzitutto i caratteri delle diverse zone territoriali, ai quali, poi, la destinazione degli immobili di cui sia consentita la localizzazione nelle singole zone deve conformarsi.

Per altro verso, la normativa in materia di commercio, nel definire le finalità fondamentali del piano di sviluppo commerciale, prescrive, in coerenza, che esso dev’essere redatto “nel rispetto delle previsioni urbanistiche” (art. 11 della l. 11 giugno 1971 n. 426) e, dunque, in conformità delle scelte di pianificazione territoriale.

Ancora, tra i contenuti obbligatori degli strumenti urbanistici generali, l’art. 13 primo comma della citata legge organica n. 426 del 1971 pone “le norme per l’insediamento di attività commerciali e, in particolare, le quantità minime di spazi per parcheggi in funzione delle caratteristiche dei punti di vendita” e al secondo comma prevede che “nei piani regolatori particolareggiati e nelle lottizzazioni convenzionate sono determinati gli spazi eventualmente riservati ai centri commerciali all’ingrosso e al dettaglio, ivi compresi i mercati rionali, ed ai grandi esercizi di vendita …”.

Appare opportuno evidenziare, al riguardo, come il legislatore abbia provveduto ad integrare il quadro normativo in materia di urbanistica nel corpo di una legge concernente il commercio, con chiare finalità di coordinamento tra le relative pianificazioni e, per altro, istituendo un rapporto di sovraordinazione della disciplina urbanistica rispetto a quella commerciale.

Ne consegue che la distribuzione degli esercizi commerciali deve rispettare le previsioni del piano urbanistico e delle norme che lo integrano, di talché non può non scaturirne l’obbligo di conformarsi ad esse anche nell’adozione degli atti applicativi del piano di commercio e cioè dei singoli atti autorizzatori.

In ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali.

Così, il già citato art. 24 l. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”.

Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 l. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere esercitate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma).

Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa. Sicché, per quanto nel nostro caso interessa, deve ritenersi che il “rispetto della destinazione d’uso dei locali e degli edifici” è voluto dal legislatore quale requisito necessario per lo svolgimento dell’attività commerciale che in essi debba svolgersi e, pertanto, anche per il rilascio delle correlate autorizzazioni.

Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che, nelle materie del commercio e dell’edilizia, poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio.

A chiusura del sistema, del resto, va notato che, tra le norme di cui il menzionato art. 24 l. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza, vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate, che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta» (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2002, n. 5656; sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 4880).

La soluzione adottata risponde, per di più, a ragionevoli canoni di interpretazione evolutiva, rivenienti da comb. disp. artt. 7 («L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ai limiti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d, di un esercizio di vicinato sono soggetti a previa comunicazione al comune competente per territorio e possono essere effettuati decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Nella segnalazione certificata di inizio di attività di cui al comma 1 il soggetto interessato dichiara: b) di avere rispettato i regolamenti locali di polizia urbana, annonaria e igienico-sanitaria, i regolamenti edilizi e le norme urbanistiche nonché quelle relative alle destinazioni d’uso …»), 8 («L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ai limiti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera e, di una media struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal comune competente per territorio, anche in relazione agli obiettivi di cui all’articolo 6, comma 1 …») e 22, comma 6 («In caso di svolgimento abusivo dell’attività il sindaco ordina la chiusura immediata dell’esercizio di vendita) del d.lgs. n. 114/1998.

6. A questo punto, rileva il Collegio che, essendosi accertata l’integrale infondatezza del ricorso introduttivo, i relativi motivi aggiunti si rendono improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse.

La proponente nessuna utilità pratica potrebbe, infatti, ritrarre dall’invocato annullamento giurisdizionale del provvedimento con questi ultimi impugnato, in quanto non potrebbe, comunque, sottrarsi alla medesima misura interdittiva disposta con la precedente ordinanza n. 93 dell’11 marzo 2008, resistita alla censure rivoltele col ricorso originario, nonché – come visto retro, sub n. 1 – incentrata su basi motivazionali completamente distinte ed autonome rispetto a quelle proprie della successiva ordinanza n. 58 del 17 febbraio 2009

7. In conclusione, alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso introduttivo va respinto, mentre i relativi motivi aggiunti vanno dichiarati improcedibili.

8. Quanto alle spese di lite, esse devono seguire la soccombenza e, quindi, liquidarsi nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando:

– respinge il ricorso introduttivo;

– dichiara improcedibili i relativi motivi aggiunti;

– condanna il Centro Commerciale Gammella s.r.l. al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in complessivi € 2.500,00 (oltre oneri accessori, se dovuti), in favore del Comune di Battipaglia.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:

Maria Abbruzzese, Presidente

Paolo Severini, Consigliere

Olindo Di Popolo, Consigliere, Estensore


Eurofer: la sentenza

Pubblicato il 16/01/2020

N. 00085/2020 REG.PROV.COLL.

N. 00602/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 602 del 2008, proposto da
Eurofer S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Marcello Fortunato, con domicilio eletto presso il suo studio in Salerno, via SS. Martiri Salernitani, 31;

contro

Comune di Battipaglia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Carla Concilio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per l’annullamento

dell’ordinanza n. 31 del 6 febbraio 2008, disponente la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di ferramenta.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Battipaglia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 novembre 2019 il dott. Olindo Di Popolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

1. Col ricorso in epigrafe, la Eurofer s.r.l. (in appresso, E.) impugnava, chiedendone l’annullamento: – l’ordinanza n. 31 del 6 febbraio 2008, con la quale il Dirigente del Settore Tributario e Attività Economiche e Produttive del Comune di Battipaglia aveva disposto la chiusura immediata dell’attività di commercio al dettaglio di ferramenta presso il locale ubicato in Battipaglia, viale delle Industrie; – il verbale di accertamento della Polizia Municipale di Battipaglia n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007; – il rapporto della Polizia Municipale di Battipaglia prot. n. 2670 del 12 gennaio 2008.

2. L’adottata misura interdittiva era motivata, sulla scorta delle risultanze del verbale di accertamento n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007 e del rapporto 12 gennaio 2008, prot. n. 2670, a cura della Polizia Municipale di Battipaglia, segnatamente, in base al rilievo che l’attività di vendita al dettaglio insediata presso il suindicato immobile, localizzato in Battipaglia, viale delle Industrie, denunciato a guisa di esercizio di vicinato, risultava incompatibile con l’estensione (mq 450) del locale ad esso adibito, corrispondente a quella (mq 250 – 2.500 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) propria di una media struttura di vendita, postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998.

3. Nell’avversare l’impugnata ordinanza n. 13 del 14 gennaio 2008, l’impresa ricorrente lamentava, in estrema sintesi, che: a) erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che la sola superficie di mq 240 sarebbe stata adibita alla vendita al dettaglio di ferramenta, mentre la residua porzione di mq 210 sarebbe stata riservata all’esposizione di macchine utensili; b) in ogni caso, l’attività commerciale de qua avrebbe beneficiato, in ragione della categoria merceologica trattata, del regime derogatorio del c.d. vicinato speciale, previsto, al comma 4, dall’art. 2 della l. r. Campania n. 1/2000, in base al quale la superficie di vendita si intende convenzionalmente pari a quella massima consentita per gli esercizi di vicinato (la restante parte considerandosi a guisa di superficie espositiva, riservata, nella specie, alle macchine utensili); c) così come avrebbe fruito del regime derogatorio di commistione tra vendita al dettaglio e vendita all’ingrosso (cui sarebbero destinate le macchine utensili), previsto, al comma 5, dal citato art. 2 della l. r. Campania n. 1/2000; d) essendo decorso il termine di 30 giorni ex artt. 8, comma 1, del d.lgs. b. 114/1998 e 19 della l. n. 241/1990, l’amministrazione comunale intimata, prima di interdire l’attività commerciale esercitata dalla E., ed a fronte dell’affidamento ingenerato nell’interessata, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario di cui alla comunicazione del 17 aprile 2003, prot. n. 18719 (comunicazione di vicinato ex art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 114/1998); e) il provvedimento impugnato sarebbe stato, infine, carente di congrua motivazione.

4. Costituitosi l’intimato Comune di Battipaglia, eccepiva l’infondatezza del gravame esperito ex adverso.

5. All’udienza pubblica del 18 novembre 2019, la causa era trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Nel merito, il ricorso si rivela infondato per le ragioni illustrate in appresso.

2. Innanzitutto, privo di pregio è l’assunto attoreo secondo cui erroneamente, nonché in difetto del presupposto e di istruttoria, l’amministrazione comunale intimata non avrebbe considerato che la sola superficie di mq 240 sarebbe stata adibita alla vendita al dettaglio di ferramenta, mentre la residua porzione di mq 210 sarebbe stata riservata all’esposizione di macchine utensili (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.a).

E’ evidente, infatti, che – come emergente dal verbale di ispezione n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007, fidefaciente fino a querela di falso – la E. abbia ampiamente debordato dai limiti quantitativi consentiti per l’esercizio commerciale in regime di vicinato.

In dettaglio, nel citato verbale di ispezione della Polizia Municipale di Battipaglia n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007, si rileva una superficie di vendita pari a mq 450 – ossia superiore alla soglia di qualificazione degli esercizi di vicinato (mq 250 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) e riconducibile al range di qualificazione delle medie strutture di vendita (mq 250 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti), postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998 – e si precisa che «la superficie di vendita al momento del controllo non presenta la suddivisione della vendita al dettaglio con la superficie ad esposizione».

A fronte di tale perspicuo e puntuale rilievo, la proposizione attorea secondo cui la vendita al dettaglio sarebbe circoscritta ad una superficie pari a mq 240, mentre la residua superficie (mq 210) del locale sarebbe riservata all’esposizione di macchine utensili non è suffragata da adeguati riscontri probatori (la planimetria esibita in giudizio da parte ricorrente non potendosi considerare tale, per la relativa natura di rappresentazione ‘virtuale’, non necessariamente corrispondente all’effettivo stato dei luoghi verificato nel verbale di ispezione della Polizia Municipale di Battipaglia n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007).

3. Le superiori considerazioni contribuiscono a dequotare anche la censura rubricata retro, in narrativa, sub n. 3.b.

Sostiene, in particolare, la E. che l’attività commerciale de qua avrebbe beneficiato, in ragione della categoria merceologica trattata, del regime derogatorio del c.d. vicinato speciale, previsto dall’art. 2, comma 4, della l. r. Campania n. 1/2000, in base al quale la superficie di vendita si intende convenzionalmente pari a quella massima consentita per gli esercizi di vicinato (la restante parte considerandosi a guisa di superficie espositiva, riservata, nella specie, alle macchine utensili).

Al riguardo, giova rammentare che, ai sensi della citata disposizione legislativa regionale: «La superficie di vendita degli esercizi commerciali che trattano esclusivamente merci ingombranti delle quali il venditore non è in grado di effettuare la consegna immediata, come auto, mobili ed elettrodomestici, legnami, materiali per l’edilizia, è limitata alla dimensione massima degli esercizi di vicinato attribuendo la restante superficie a magazzino, deposito o superficie espositiva. Il Comune rilascia, per dette tipologie di esercizi, apposita autorizzazione nella quale è specificata la limitazione alla vendita dei prodotti indicati e potrà, inoltre, stabilire, negli strumenti comunali di intervento di cui al comma 1 dell’art. 13 della presente legge, contenuti limiti di superficie dei magazzini, depositi o superficie espositiva connessa, anche in maniera differenziata per le diverse zone di intervento comunale. Richieste di ampliamento merceologico o di superficie, oltre i limiti stabiliti dai Comuni, vanno considerate come nuove aperture e trattate secondo le modalità connesse all’apertura di medie e grandi strutture di vendita per gli esercizi di vicinato adibiti alla vendita di materiali edili e/o di merci ingombranti».

Ebbene, si è già visto retro, sub n. 2, che, a tenore del verbale di ispezione della Polizia Municipale di Battipaglia n. 11/L.C. del 9 ottobre 2007, presso il locale supervisionato non figurava identificabile un apposito spazio espositivo di macchine utensili, così come dedotto da parte ricorrente.

Non solo. La tesi attorea sconta la triplice obiezione che: – in linea generale, l’attività di vendita di ferramenta non può, di certo, reputarsi riservata «esclusivamente» alla commercializzazione di «merci ingombranti delle quali il venditore non è in grado di effettuare la consegna immediata» (rientrando nella categoria della “ferramenta” anche, e soprattutto, oggetti di ridotte proporzioni, quali, ad es., chiodi, viti, bulloni, guarnizioni, piccoli attrezzi da lavoro, ecc.); – sul piano concreto, non risulta dimostrata dalla E. l’assimilabilità degli articoli da essa trattati (precipuamente, macchine utensili) alle tipologie contemplate dalla citata norma derogatoria regionale («auto, mobili ed elettrodomestici, legnami, materiali per l’edilizia»); – non figura, in ogni caso, mai rilasciata alla medesima E. l’apposita autorizzazione comunale richiesta dall’art. 2, comma 4, della l. r. Campania n. 1/2000.

4. Inconferente risulta essere pure il richiamo di parte ricorrente alla disposizione dell’art. 2, comma 5, della l. r. Campania n. 1/2000 (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.c).

Ai sensi di tale disposizione legislativa regionale, «il divieto di effettuare la vendita all’ingrosso ed al dettaglio negli stessi locali, ai sensi di quanto stabilito dal comma 2 dell’art. 26 del decreto legislativo 114/1998, non si applica per la vendita, in maniera esclusiva o prevalente, dei seguenti prodotti: … ferramenta ed utensileria».

Ebbene, è del tutto evidente che una simile deroga concerne non già l’operatività della soglia sancita dall’art. 4, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 114/1998 per l’attività di vendita al dettaglio in regime di vicinato, bensì unicamente il divieto di vendita commista (all’ingrosso e al dettaglio) sancito dall’art. 26, comma 2, del d.lgs. n. 114/1998. Laddove, nella specie, è stato accertato – senza essere fondatamente smentito dalla E. – che la (sola) vendita al dettaglio ricopriva l’intera area di mq 450, mentre si configura a guisa di mera petizione di principio – sconfessata dai dati di comune esperienza – l’assunto attoreo secondo cui le macchine utensili, per loro natura, sarebbero commercializzate all’ingrosso.

5. La ricorrente neppure coglie nel segno, allorquando sostiene che essendo decorso il termine di 30 giorni ex artt. 8, comma 1, del d.lgs. b. 114/1998 (applicabile ratione temporis) e 19 della l. n. 241/1990, l’amministrazione comunale resistente, prima di interdire l’attività commerciale esercitata dalla E., ed a fronte dell’affidamento ingenerato nell’interessata, avrebbe dovuto rimuovere con le forme motivazionali e le garanzie partecipative proprie dell’autotutela il titolo annonario di cui alla comunicazione del 17 aprile 2003, prot. n. 18719 (comunicazione di vicinato ex art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 114/1998) (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.d).

La censura in esame si infrange contro l’obiezione dirimente che il menzionato titolo annonario era da intendersi ovviamente formato in relazione alla sola superficie legittimabile.

Essendosi acclarato – retro, sub n. 2-4 – che l’attività di vendita esercitata presso il locale di viale delle Industrie era difforme dal paradigma abilitativo, l’amministrazione comunale è rimasta, dunque, nella legittima condizione di esperire direttamente – senza l’intermediazione delle forme e le garanzie proprie dell’autotutela invocate da parte ricorrente – i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento in materia commerciale. In altre parole, essendosi riscontrati gli estremi dell’abusivo esercizio di attività, i poteri anzidetti si sono correttamente incanalati nell’alveo naturale e vincolato del ripristino della legalità violata.

6. Infondata è, infine, la censura di deficit motivazionale (cfr. retro, in narrativa, sub n. 3.e).

L’ordinanza n. 31 del 6 febbraio 2008 figura, infatti, perspicuamente e congruamente argomentata in base al rilievo che l’attività di vendita al dettaglio insediata presso il suindicato immobile, localizzato in Battipaglia, viale delle Industrie, denunciato a guisa di esercizio di vicinato, risultava incompatibile con l’estensione (mq 450) del locale ad esso adibito, corrispondente a quella (mq 250 – 2.500 per i Comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti) propria di una media struttura di vendita, postulante il rilascio di apposita autorizzazione ex art. 8 del d.lgs. n. 114/1998.

7. In conclusione, stante la ravvisata infondatezza di tutte le censure proposte, così come dianzi scrutinate, il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

8. Quanto alle spese di lite, esse devono seguire la soccombenza e, quindi, liquidarsi nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe;

Condanna la Eurofer s.r.l. al pagamento delle spese di lite, che si liquidano nella misura complessiva di € 2.500,00 (oltre oneri accessori, se dovuti), in favore del Comune di Battipaglia.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:

Maria Abbruzzese, Presidente

Paolo Severini, Consigliere

Olindo Di Popolo, Consigliere, Estensore


 

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