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Unisa, intervista a Serge Noiret

Ospite del convegno “Public historians: gli storici tra accademia e mercato“, il docente dell’università di Fiesole (FI), nonché presidente della Federazione Internazionale di Public History, Serge Noiret, ha rilasciato un’intervista ai microfono de L’Occhio di Salerno.

Un campo ancora sconosciuto in Italia: che cos’è la Public History?

La Public History è un tema ancora sconosciuto. E forse lo è anche a parecchi Public Historians nel senso che la “storia pubblica” ha vari ambiti. Non sono cose codificate, in molti Paesi la definizione è diversa. Io sono favorevole ad una definizione piuttosto ampia nella quale si parte dall’idea che la Public History è il modo di confrontarsi con il passato fuori dall’università, cioè che non sia la produzione di saggistica accademica/scientifica scritta per gli altri storici e per far progredire una scienza storica e dunque la ricerca sul passato. È tutto quello che succede fuori. Da quando il web è diventato interattivo (2.0), da quando la gente ha potuto creare contenuti di storia e di memoria nella rete, le persone hanno preso in mano la loro storia ed hanno iniziato a fare public history, senza il bisogno degli storici formati nelle università. La storia che viene dal basso, dalla gente. E questo è il primo ambito.

Secondo ambito: i public historians sono delle persone, formate in ambiti accademici, che con il loro lavoro vanno verso il pubblico. Queste persone mettono in scena il passato insieme al pubblico, per il pubblico, con il pubblico. Per la trasmissione, c’è bisogno dei media: dal teatro, ai media visivi, alla scuola, insomma qualsiasi media che può trasmettere il messaggio.

Il terzo ambito, a mio avviso, è quello della comunicazione e della divulgazione. L’idea che la storia non è fatta solo per l’élite e scritta in un certo modo, abbastanza esoterico, difficile da capire. Il public historian è qualcuno che capisce a quale pubblico si indirizza e trasmette il suo messaggio attraverso i media tradizionali, ma con un linguaggio accessibile a tutti. Dunque, i tre ambiti che – secondo il mio punto di vista – caratterizzano la public history sono: accademici fuori, i media e le memorie.

Così come la Public History, anche Serge Noiret non è conosciuto da tutti. Chi è Serge Noiret?

Serge Noiret è di origini belga (Bruxelles). Ha fatto un dottorato in storia, all’Istituto Universitario Europeo di Firenze nel ’79, si è occupato di storia della crisi dello Stato liberale, del “biennio rosso”, della nascita del fascismo e ho pubblicato diverse cose legate a quest’epoca. Mi sono occupato di sistemi elettorali, collaborando con varie università italiane. Ma, in particolare, sono un public historian, perché lavoro con la storia per sostenere le ricerche del dipartimento di storia dell’università europea dove ho trovato lavoro. Sono assistente per curare le collezioni di storia legate ai progetti di ricerca e faccio formazione di digital history, all’università di Fiesole. Dunque, sono passato dall’essere uno storico tradizionale (uno dei miei direttori di tesi è stato Renzo De Felice) ad essere un public historian.

Con l’avvento del web, per un ricercatore, così come per qualsiasi persona che debba attingere a delle fonti, è sicuramente più facile trovarle. Ma quali sono i limiti del web?

I limiti del web li vediamo nel dibattito che sta esplodendo sulla fake news. L’impossibilità di validare i contenuti del web in un modo popolare. Mi spiego meglio: se uno è docente di storia, ha delle capacità critiche perché ha studiato e sa come confrontarsi verso le notizie, ha degli strumenti per verificare. Abbiamo scritto un libro, pubblicato nel 2004 “La storia al tempo di internet” che era la proposta di una scheda critica per confrontarsi con dei contenuti dei siti web. Avevamo monitorato tutto il web italiano di storia, dal 2001 al 2004, per vedere cosa c’era dentro. E c’erano tantissimi siti negazionisti che, oggi, sono anche nei social media. Il linguaggio asettico, come quello di Wikipedia, inganna l’utente che può tranquillamente prendere per buono ciò che legge, ma è una fake news. Una storia che non esiste. Dunque, noi public historian abbiamo pensato di affrontare l’argomento scrivendo questo libro pubblicato dall’IBC (istituto per i beni culturali dell’Emilia Romagna). Già a quell’epoca capimmo che l’impatto del web sarebbe stato dirompente e che bisognava attrezzarsi. Intanto, ancora oggi, le università non sono pronte a fornire le basi per evitare che un utente web incappi nella fake news. Non abbiamo ancora gli strumenti necessari e su questo bisogna lavorare.

Il convegno di oggi si intitola “Public historians: gli storici tra accademia e mercato. Ecco, quali sono le caratteristiche del mercato?

Questo è l’oggetto del mio intervento durante il convegno. Se ci riferiamo alla Public History, possiamo individuare molte professionalità che già esistono, non qualificate come public historian, o che lavorano in collaborazione con degli storici, ma ci sono anche i laboratori dove i giovani di oggi possono inventarsi una professione. Ad esempio, ho avuto modo di vedere i lavori proposti da alcuni ragazzi dell’università di Bologna che facevano un Master. E questi ragazzi avevano le idee chiare su cosa fare. Il lavoro di fine Master era già un lavoro applicato con la storia che avrebbe avuto possibilità di commercializzazione. C’è bisogno di creare delle cooperative sui beni culturali, ovviamente. Mi vengono in mente due ragazzi romani che avevano svolto questo Master e, come lavoro finale, avevano generato un’app che serviva a fare delle passeggiate all’interno di Roma seguendo i film neo-realisti italiani. Dunque, era un prodotto culturale che chiedeva di essere divulgato e venduto all’interno di una cerchia di public history. Dipende molto da ciò che voi ragazzi volete pensare di fare.

Grazie, Serge e buon lavoro!

Grazie a voi.

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