Eventi e cultura

Nudi davanti al pubblico – “Pazzianne pazzianne”, lo spettacolo dei pazienti del Centro di Salute Mentale di Contursi Terme in scena all’Auditorium Palatucci di Campagna

Di Angelo Cariello (Foto di Valentina Gaudiosi)

«Vogliate perdonarci, non so come sia potuto succedere». Il direttore del circo ha guadagnato il centro del palco. È scuro in volto, adirato, lo sguardo perso in platea. Nemmeno l’accento francese riesce a celare il suo disagio. «Tornate domani», aggiunge, «proveremo a risolvere quest’inghippo».

Un inghippo, un inconveniente, un problema, anche abbastanza grosso. Qualcosa non ha girato nel verso giusto, qualcosa ha tradito giocolieri e attori proprio nel momento più delicato e importante, quello per cui ogni artista si prepara, lavora ed è poi pagato: il momento della performance. Le palline e gli anelli lanciati in aria non volteggiano a dovere, i piatti scivolano dalla punta dei bastoni e la voce di chi canta non imbocca l’ottava giusta. La sala prende a rumoreggiare, gli errori si ripetono, cresce l’imbarazzo, è un susseguirsi di stecche, un’inesorabile rassegna di fiaschi. Il disappunto è alle stelle, c’è chi ride, chi fischia, chi strepita e contesta. Qualcuno pretende a gran voce i soldi del biglietto. Come dargli torto? Lo spettacolo a cui stiamo assistendo è veramente penoso. E il fatto che sia gratuito è un dettaglio di poco conto che non sconfessa affatto la richiesta di un rimborso più che mai legittimo.

Tutto ha un costo, anche la porzione di tempo che ognuno di noi si è ritagliato per presenziare a questo scempio. A me, ad esempio, è servita mezzora buona d’auto per raggiungere l’Auditorium Palatucci di Campagna, dove si sta consumando il dramma – fin troppo reale e fin troppo poco teatrale – che ho appena descritto. E dire che era un appuntamento a cui tenevo tanto, avevo segnato da tempo la data sulla mia agenda e da tempo avevo riorganizzato i miei impegni per godermi questo spettacolo. Per nessuna ragione al mondo mi sarei perso il debutto teatrale dei miei amici del Centro di Salute Mentale di Contursi Terme. Mi lega a loro un affetto più che fraterno, abbiamo trascorso insieme giornate memorabili. E insieme a loro – e con Valentina Gaudiosi e Simone Valitutto – ho realizzato poco meno di un anno fa il videoclip di un indovinatissimo brano de Il Conte Biagio, intitolato – manco a farlo apposta – “La gente parla”, una lucida invettiva in cui il giovane cantautore maledice la spietata arte del pettegolezzo in cui noi tutti – nessuno escluso – eccelliamo.* A onor del vero, il grosso del lavoro all’epoca lo fecero i pazienti. Le idee, la trama, il soggetto e finanche le inquadrature delle riprese furono frutto del loro ingegno e della loro inesauribile creatività. A me, Valentina e Simone restava il compito di schiacciare il pulsante per avviare la registrazione durante le riprese e di mettere in fila i pezzetti di girato in fase di montaggio.

Insomma, dopo aver saggiato in prima persona le grandi capacità dei pazienti del Centro di Salute Mentale (tanto come creatori quanto come attori), beh, proprio non mi aspettavo di ritrovarmi spettatore di una loro simile debacle.

Cos’è che vi è successo, amici cari? Cos’è che vi ha bloccato, stasera? Quale morbo ha prosciugato la vena – pochi mesi fa così abbondante – della vostra genialità? Sono domande la cui carica retorica è facilmente disinnescabile. Io stesso, avendo seguito la rappresentazione fin dall’apertura del sipario, sono in grado di dar loro una risposta concreta. L’ho sentita anch’io – nella prima parte dello spettacolo, prima che iniziasse il circo – quella voce insistente. Veniva da fuori, è stata lei a toccarvi dentro, quell’impietoso appello dei falliti vi ha turbato, vi ha sottratto la tranquillità di cui necessita un artista che si appresta a esibirsi. A te, Alfonso, quella voce diceva che non ti sei laureato e che dunque non vali niente. A te, Maria, diceva che la tua è solo un’illusione, ché tanto un fidanzato non lo troverai mai. A te, Salvatore, diceva che la vita è una cosa seria cui non si addice quel sorriso che hai sempre stampato sulle labbra. Eco esteriore dei marosi che travolgono la coscienza, a ognuno di voi quella voce ha ricordato la genesi del vostro naufragio, ha raccontato l’origine della vostra disfatta, ha scavato in quel vuoto con cui ogni giorno ancora fate i conti. E così lo spettacolo – il vostro spettacolo – è andato a rotoli. Avete disatteso le aspettative. Non siete stati all’altezza del ruolo che vi hanno assegnato, tanto meno del pubblico che è corso a vedervi. Avete violato la regola fondamentale del gioco del teatro, regola secondo cui chi calca le assi di un palco deve necessariamente mostrarsi e dimostrarsi forte, fermo, sicuro, sereno, abile, capace, preparato, efficiente, idoneo, adatto. La stessa identica regola che disciplina e coordina – prima ancora del teatro – anche il gioco della vita, del nostro vivere insieme, delle nostre interazioni sociali.

Foto di Valentina Gaudiosi
Foto di Valentina Gaudiosi

Cos’altro facciamo, noi tutti, ogni sacrosanto giorno, se non salire sul palcoscenico della società? Cos’altro è la nostra vita se non l’interpretazione di un copione già scritto e di un ruolo sociale già stabilito? Cos’altro siamo se non attori che mettono in scena la rappresentazione sociale della propria vita?

A questo pensavo l’altra sera, mentre assistevo, rapito, a “Pazzianne pazzianne”, lo spettacolo realizzato dai pazienti del Centro di Salute Mentale di Contursi Terme, con la regia di Marta Clemente e Antonio Caponigro, i costumi di Maria Marino e Cosimina Moscato, le musiche suonate da Maddalena Pierro, Tonino Caputo e Raffaele Monaco e la partecipazione del clown Rosario Cuzzocrea, in arte Cico.

Pensavo al sociologo canadese Erving Goffman e alla sua metafora drammaturgica secondo cui la nostra quotidianità non è altro che una performance teatrale, una messinscena collettiva nella quale ognuno interpreta una parte – la propria parte – a seconda del canovaccio culturale, a seconda della specifica situazione comunicativa, a seconda del particolare contesto sociale in cui avviene la nostra interazione con l’altro. Siamo attori, insomma, costantemente alla ricerca della strategia drammaturgica più adatta a conferire coerenza e importanza al nostro ruolo, costantemente tesi al controllo delle nostre espressioni e dei nostri gesti, attenti a evitare ogni possibile comportamento che possa far nascere nel pubblico dubbi sul nostro conto e screditare, pertanto, il personaggio che stiamo interpretando.

Siamo attori, dunque, e in quanto tali dobbiamo dar prova della nostra forza, della nostra fermezza, della nostra abilità, socialmente obbligati a padroneggiare la nostra condotta emozionale per dimostrare di essere tutto ciò che deve necessariamente mostrare di essere un attore quando si presenta in teatro, sul palco, di fronte al pubblico. Niente debolezze, niente incertezze, niente atti e portamenti fuori luogo: è su questo che si basa il patto sociale non scritto delle nostre interazioni. Ed è proprio qui – nel coraggioso rovesciamento di questo universale postulato sociale – che ho trovato l’infinita, commovente bellezza dello spettacolo cui ho avuto la fortuna di assistere.

Gli attori hanno spezzato il canovaccio prefissato, i pazienti hanno infranto il comandamento mondano della presentabilità sociale. Si sono mostrati deboli, incerti, insicuri, turbati. Alla facciata hanno preferito l’essenza, al ruolo hanno sostituito la coscienza, al personaggio hanno anteposto la persona. Dando voce alla loro inidoneità, hanno finalmente raccontato la nostra congenita inabilità. Portando in scena i loro smarrimenti, hanno espresso i nostri scompigli, i nostri disordini, il rimescolarsi confuso e irrequieto del nostro spirito. Rappresentandosi per quel che naturalmente sono, hanno rappresentato la nostra vera natura. Siamo fragili, scostanti, arsi vivi dai dubbi, mangiati dall’angoscia, soggiogati dagli affanni, pieni di vuoti incolmabili, lacerati dalle frustrazioni, sballottati dall’altalena di piacere e dolore, devastati dalle rinunce, asfissiati dalle repressioni, psicologicamente demoliti dal martellante susseguirsi di voci interiori. Sacrifichiamo anima e corpo sull’altare delle tante aspettative nostre e delle troppe attese altrui. Barattiamo la nostra autenticità per la crosta posticcia e insulsa di recite contraffatte e di maniera. E – quel che è peggio –, pur covando in cuor nostro la consapevolezza di uno scambio frustrante e svantaggioso, seguitiamo a svendere pezzi del nostro spirito per un pugno di consensi sociali, per una manciata di approvazioni formali, per un minuto o due di applausi d’occasione. Cosa resta di noi se, raggirando la nostra natura imperfetta, continuiamo a sbarrare ogni via d’accesso alla felicità col macigno dell’onnivora esigenza della performance perfetta? Cosa c’è di veramente nostro in questo spersonalizzato e spento mercimonio di battute a tempo e gesti cronometrati? Quanto ancora riusciremo a sopravvivere a questo efferato taylorismo dell’anima prima di consegnarci, una volta esaurite le nostre forze, alla follia?

Pazzianne pazzianne” è il racconto, vissuto e vivente, di chi non ce l’ha fatta, di chi ha ceduto, di chi ha perso il ritmo ed è inciampato. “Pazzianne pazzianne” è la messinscena personale di chi si è ritrovato tagliato fuori dallo scenaggiato sociale. “Pazzianne pazzianne” è il nostro racconto, la nostra storia, la storia della nostra vita. O, almeno, è una storia da cui noi tutti avremmo tanto da imparare. Al diavolo i malintesi: intendevo noi tutti esseri umani, ovviamente. Non alludevo a nessun tipo di “noi” come epicentro di normalità, sanità e salvezza da contrapporre al turbine mentale che rovescia “loro”, vale a dire i malati, gli spostati, i pazzi. Non esiste alcun confine di questo genere, le uniche linee di demarcazione sono quelle tracciate dalla maniacale ossessione dicotomica del potere. Per di più, se proprio volessimo ragionare in termini di contrapposizioni binarie, allora alla supposta normalità e all’ipotetica sanità mentale che sostanzierebbe il “noi” dovremmo contrapporre non tanto l’anormalità e la follia, quanto lo stoicismo e la temerarietà di chi, dopo aver toccato il fondo, sta provando a risalire, raccattando e riattaccando – uno per uno – i pezzi del proprio io in frantumi.

È così che vanno le cose sul palco, lo spettacolo va avanti anche dopo il fallimento del circo. Anzi, è lì che comincia la vera storia. Non sarà certo un licenziamento a fermare gli eroi che si alternano in scena, le sventure che i pazienti hanno vissuto nella realtà hanno trasmesso agli attori il segreto della forza d’animo, nessuna occasione persa potrà mai arrestare la danza delle possibilità nuove e altre che anima l’esistenza.

Certo, bisogna fare i conti con le lacrime che ora sgorgano copiose sul volto degli attori, c’è l’angosciante sapore della solitudine, c’è da digerire la velenosa coda emotiva del fallimento. Ma, di lì a poco, ecco la sorpresa di scoprirsi piacevolmente nudi e finalmente autentici, ecco il coraggio di presentarsi così, liberi dalla prigionia di ogni maschera sociale, davanti al pubblico, dinanzi al proprio prossimo. E quando anche l’ultimo dei pazienti ha abbandonato il proprio travestimento e ha mostrato i lineamenti del proprio intimo essere, prorompe automaticamente sulla scena la magia della semplicità: gli attori si riscoprono artisti della sopravvivenza, acrobati dell’esistente, giocolieri impeccabili e fenomenali con ciò che hanno a disposizione, fosse anche una busta di plastica vuota o una scatola sformata di cartone. Nessuno più ride di loro, nessuno strepita, nessuno protesta. La bilancia del consenso – quello vero – pende adesso a loro favore. Sanno bene, gli attori, che ciò che li ha finora condannati era soltanto il riflesso distorto di un effimero gioco di specchi. Hanno capito, i pazienti, che ciò che può salvarli è il riconoscersi, con i propri limiti, nei limiti dell’altro, per procedere insieme, mano nella mano, nello spinoso cammino della vita.

Foto di Valentina Gaudiosi
Foto di Valentina Gaudiosi

Ho dedicato anni allo studio di Antonin Artaud e alla sua idea di un teatro crudele, un teatro scevro da ogni fine estetico e comunicativo, un’arte totale in cui ogni elemento è un atto magico che trapassa il sentire dello spettatore fino a sconvolgere – come un medicamento, un farmaco della psiche – la sua coscienza. Per Artaud, che ha trascorso buona parte della sua vita segregato in manicomio e che per la sua presunta follia ha subito – a mo’ di cura – più di cinquanta elettroshock, il teatro non ha mai avuto niente da spartire con la farsesca rappresentazione di una storia. L’unico possibile fine del teatro era l’espressione della più cruda e viscerale verità, quella che abita le profondità più recondite e nascoste del nostro corpo. All’attore Artaud assegnava il compito non di interpretare un personaggio ma di riattualizzare, attraverso il corpo, le forze primordiali e violente che alimentano la nostra vita e che, una volta espresse, avrebbero potuto restituire al teatro la sua originale funzione terapeutica.

Ho cercato a lungo, tra innovatori e progetti sperimentali, qualcosa che si avvicinasse all’idea di Artaud. Una ricerca resa vana dallo scarto che puntualmente ho avvertito tra l’attore che stava andando in scena e l’uomo che avrebbe immancabilmente preso il suo posto non appena si sarebbe concluso lo spettacolo.

Ho ritrovato il teatro – quello vero, crudele, il teatro di Artaud – l’altra sera, dove meno me l’aspettavo e quando meno credevo possibile, essendomi ormai arreso da qualche tempo all’impossibilità di vedere trasformate in realtà le idee del “folle” pensatore e attore francese. Ho ritrovato la crudeltà del teatro sognato da Artaud assistendo a uno spettacolo in cui – per la prima volta – uomo e attore coincidevano chirurgicamente, l’uno perfettamente sovrapposto all’altro, l’uno fuso e vivo per forza di cose nell’altro.

«I pazienti volevano parlare di sé, di ciò che vivono interiormente, delle proprie angosce», mi ha raccontato dopo lo spettacolo la dottoressa Antonella Albero, illuminatissima direttrice dell’Unità Operativa di Salute Mentale 64 A di Contursi Terme.  «Che dovevamo farne di queste ombre che li tormentano? Abbiamo pensato che riconoscerle ed esprimerle era per loro un’ottima occasione per farsele amiche. Così i pazienti hanno deciso di portare in scena ciò che pensano veramente, ciò che vivono e sentono ogni giorno. Non so dirti quanto c’era di vero e quanto di recitato. So che questo spettacolo è il racconto della psichiatria dal punto di vista di un paziente. Un racconto a cui noi operatori non ci opponiamo. A noi spetta il compito di costruire legami, non di applicare lacci e legacci che imprigionano.»

*Ecco il link al videoclip del brano “La gente parla” de Il Conte Biagio realizzato insieme ai pazienti del Centro di Salute Mentale  di Contursi Terme: https://www.youtube.com/watch?v=K-DQoptr3Ak

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