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Maria Teresa Chechile, infermiera di Atena Lucana che lavora nelle Marche: “non so quando tornerò per abbracciare i miei cari”. E scrive una poesia

“Non posso non pensare al mio paese d’origine, Atena Lucana, che è stato posto in quarantena. Qui da Jesi, dove il destino mi ha portata e dove lavoro, presso l’ospedale Carlo Urbani che, ironia della sorte, è intitolato al medico marchigiano che di Sars ne ebbe purtroppo, la peggio, giunga la mia vicinanza”. Parole colme d’amore per la sua terra quelle di Maria Teresa Chechile, infermiera originaria di Atena Lucana che vive e lavora a Jesi, comune della provincia di Ancona.

Maria Teresa Chechile, infermiera di Atena Lucana in trincea nelle Marche per il coronavirus

“Alla mia mamma, che spero di poter riabbracciare presto,, ai miei affetti più cari, alla comunità tutta e a tutta l’italia voglio urlare quel ‘Andrà tutto bene’. Non posso e non possiamo farci prendere dallo sconforto anche se a volte vorrei potermi svegliare da questo incubo di un sogno di una notte qualunque, come quando mi affacciavo alla finestra e raccoglievo i miei pensieri e tornare a giocare. A giocare come un bimbo fa. Correre in mezzo ad un prato fiorito che sa come di questa primavera. Andare tra la gente anche solo per abbracciarci in un unico abbraccio del mondo. Ritorneremo a sognare vite normali, a vivere. Ritorneremo”.

Maria Teresa Chechile, infermiera di Atena Lucana che lavora nelle Marche: "non so quando tornerò per abbracciare i miei cari"

L’infermiera dedica una poesia alla sua terra

L’infermiera, che è anche una poetessa, ha dedicato un componimento alla sua terra. Si chiama “In trincea – 18 marzo 1932”.
“L’ho scritto dedicandolo a mio padre, nato il 18 marzo 1932 , nel giorno del suo compleanno. Avendo visto in televisione Atena Lucana messa in quarantena, ho pensato a lui ed ai suoi racconti di guerra . Io sono originaria di Atena Lucana, ma vivo e lavoro come infermiera a Jesi da 22 anni. Avrei dovuto rivedere la mia mamma ed i miei cari per Pasqua. Non so a questo punto quando li rivedrò”.

IN TRINCEA – 18 marzo 1932 –

Chissà cosa avresti detto oggi.
Forse avresti ripetuto le stesse parole d’allora,
quando ci raccontavi di guerra,
di miseria e di sirene che suonavano ad annunciare il coprifuoco.
Di nemici che avanzavano, di alleati e di paure e nascondersi
ognuno alla meglio, chi nelle grotte o tra gli anfratti o rinchiusi in casa
perché arrivavano i bombardieri, le rappresaglie.
Tra le razzie, di chi e chi come meglio poteva,
raccogliere quel po’ che era concesso per sfuggire alla morte.
Oggi come allora la scena è la stessa.
Il muoversi delle masse in fretta, assaltare
le diligenze dei treni e dei negozi
e poi scendere in battaglia armarti di mascherine,
guanti e disinfettanti per difendersi dal nemico.
Ma questa volta il nemico è invisibile.
Non ci abbracciamo per farci coraggio,
tringendoci l’uno all’altra ma, sai, ci evitiamo per salvare la pelle.
Non ci ritroviamo nei covi comuni
ma ci guardiamo senza neanche parlare,
come se il nemico al solo sentirci potesse farci male.
Avresti rivisto oggi quella storia. Si, diversa eppure simile.
Avresti concluso che siamo in guerra. Ma sai papà è guerra
che non ha fucili e ne’ mimetiche ma siamo armati uguali.
L’uniforme bianca ne fa dei generali, dei comandanti o dei soldati semplici.
Che’ dai balconi si canta e si balla e si sfida la sorte.
È oggi come allora il canto dei popoli.
Mi raccontavi di bandiere troneggianti
come vessilli e dentro le case a pregare coi lumi sempre accesi.
Era allora la guerra dei confini e della supremazia,
oggi è la guerra del confinare un virus in gabbia.
Traditore e fautore del “vivere è sempre quello “.
Ecco papà cosa c’è di nuovo sotto il sole: nulla di nuovo.
Ritorneremo a sventolare bandiere tricolori tra piazze e città, oggi vuote o tali, ed annunciare la guerra è finita”

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